Foto Guido Calamosca/LaPresse

 Ora il dilemma per registi e scrittori è se creare opere a tema virus o far finta di nulla

Mariarosa Mancuso

Come devono comportarsi gli autori con il tema della pandemia? Gli autori più coraggiosi provano a narrarla, gli altri semplicemente non si pongono il problema. L’arte alle prese con la “boring apocalypse”

Uno spettro turba i sonni degli scrittori che coltivano l’arte del romanzo con trama e personaggi. Come comportarsi con la pandemia? Metterla in mezzo oppure far finta di niente, riportando il calendario al 2019? E’ il più classico dei casi “come fai, sbagli”. E nessuno ha più la tempra di Daniel Defoe: lo scrittore di “Robinson Crusoe” pubblicò (anonimo) un “Diario dell’anno della peste” tutto inventato – al tempo della pestilenza aveva 5 anni. Riportato all’oggi: scrivi un romanzo tanto geniale e interessante che nessuno farà caso al virus.

 

Non parlare della “boring apocalypse” – definizione di un giornalista del New York Times – sarebbe peccato di omissione. Ma i lettori ne avranno voglia? Le più tradizionali catastrofi offrivano al romanziere una gamma più ampia di drammi. Basta pensare alla guerra, ai meteoriti, agli scenari post apocalittici con padre e figlio di Cormac McCarthy in The Road.

 

I coraggiosi ci stanno provando. Il New York Times fa l’elenco degli scrittori al lavoro su trame con uso di pandemia. Ian McEwan per esempio, che di recente ha cercato di sfatare il suo soprannome Ian “Macabre” – dato dai soliti maligni, e riferito ai primissimi racconti – con il fantascientifico Macchine come me e una divertente variazione scespiriana intitolata Nel guscio (Amleto comincia a parlare quando è ancora nella pancia della mamma, fedifraga come vuole la tradizione). Un obbligo, più che una passione, dice: “Il virus è un autocarro con rimorchio di traverso sulla strada”. In Lessons (uscirà a settembre) McEwan racconta un settantenne solo a Londra che durante il lockdown ripercorre la sua vita.

 

Anne Tyler, grande narratrice di storie familiari, in French Braid racconta una coppia di Baltimora dagli anni 50 all’altro ieri, quando gli anziani genitori sono raggiunti da figlio e nipote per superare insieme la pandemia. Stesso espediente, in vari gradi di malinconia. Per il romanzo rosa, aspettiamo morosi legati dall’impossibilità di viaggiare.

 

Le professioniste fanno il bis. Isabel Allende in Violeta (già uscito da Feltrinelli) racconta una bambina nata quando la Spagnola si diffonde in Cile; morirà sola, per un’altra pandemia. Il mondo bloccato per mesi e mesi le sembrava un’immagine romanzesca irresistibile. Sigrid Nunez aveva pubblicato nel 2010 Salvation City: una misteriosa malattia respiratoria lascia orfano il tredicenne Cole, in un’America dove mancano mascherine, disinfettante, ventilatori negli ospedali. Sta scrivendo un altro romanzo, su una donna sola e spaventata a New York, mentre il virus si diffonde.

  

Poche le voci contrarie. Ci ha provato Tom Bissell: Girate alla larga, non c’è nulla da dire (lui aveva raccontato Greg Sestero in Disaster Artist: il regista di un film così brutto che ora è di culto). I favorevoli parlano di “guarigione emotiva”, che non si darebbe senza narrazioni. Quando la letteratura smetterà di essere considerata “curativa”, utile a guarire le ferite dello scrittore e dei lettori, sarà un giorno da festeggiare.

  

Qualcuno ha scommesso sulla durata: “Per il 2022 saremo fuori, e potremo parlare di qualsiasi cosa”. I registi vivono lo stesso dilemma: fare recitare gli attori con le mascherine e rischiare che il film risulti insopportabile a pandemia finita? Oppure fare finta di nulla, e in caso di film realistici fare la figura di uno che vive sulla luna? (le scene di folla ci fanno ormai sussultare, anche se sono ambientate negli anni 30). Per ora, le mascherine sono saldamente solo sulla faccia degli spettatori, e a giudicare dai pochi biglietti staccati e degli schermi spenti – 500 nell’ultimo anno, si calcola – proprio non ce n’è bisogno.

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