viaggio nella cultura basca

Il Guggenheim celebra i suoi primi 25 anni, ma Bilbao guarda già al futuro

Giuseppe Fantasia

Nel 1997 veniva inaugurato il polo di arte moderna e contemporanea: a distanza di un quarto di secolo è uno dei simboli della città basca che si prepara a festeggiare l'anniversario con un ricco programma di eventi

Con il motto “L’arte ispira il futuro”, il Museo Guggenheim di Bilbao dà inizio ai festeggiamenti per il suo 25esimo anniversario che culmineranno a ottobre prossimo, ricordando così il suo inizio – nel 1997 – quando l’architetto Frank Gehry lo fece conoscere alla città basca e al mondo intero.

Pre e post pandemia, ci siamo tornati diverse volte stupendoci sempre, perché questa avveniristica costruzione - che a seconda del punto di osservazione e dell’immaginazione dell’osservatore può assomigliare a un fiore, a una nave o a un pesce senza pinne - offre sempre qualcosa di nuovo e di inaspettato. L’iconico Puppy, l’opera che Jeff Koons realizzò per la sua apertura – una scultura alta più di dodici metri che riproduce un enorme West Highland Terrier con piante e fiori che cambiano ogni stagione – è sempre lì ad accoglierci sul piazzale d’ingresso e per farlo essere al passo con i tempi (di Covid), gli hanno aggiunto persino una mascherina. È una certezza anche l’enorme labirinto in ferro di Richard Serra (The Matter of time), così come le grandi e iconiche tele di Rothko e Basquiat, le sculture di Louise Bourgeois, Anish Kapoor e Chillida, l’ipnotico paesaggio marino di Gerhard Richter e Installation for Bilbao, le nove colonne a luci LED di Jenny Holzer su cui vengono proiettate frasi e frammenti di testo che sembrano voler raggiungere il cielo, poco distante da Sonnenschiff, la scultura con Anselm Kiefer ha raffigurato i devastanti effetti dei bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale sulla campagna tedesca. Ma c’è di più.

Stanze e ali del museo che sono sempre state lì, vengono scoperte per la prima volta da un pubblico sempre più numeroso, tra incontri, dibattiti pubblici, presentazioni di libri e – ovviamente mostre temporanee. “Siamo stati in grado di reagire e di definire un piano per gli anni a venire – ci ha spiegato Juan Ignacio Vidarte, direttore generale del museo da oltre vent’anni. “Siamo stati in capaci di mantenere la sostenibilità della struttura per poter garantire l’operatività e il museo non si è fermato per affrontare con entusiasmo e ottimismo realista le sfide del suo futuro. L’incertezza e le limitazioni provate con la crisi sanitaria – aggiunge – sono servite da stimolo per sfruttare le nuove opportunità per continuare a diffondere l’arte e continuare a essere un motore del territorio. Così come è accaduto 25 anni fa in un contesto di grave crisi economica, il Guggenheim ha visto chiaramente che ispirare fiducia e aiutare a riattivare l’ambiente fa parte della sua ragion d’essere”.

Mentre ci parla, i giochi diurni di luce naturale lasciano il posto a quelli diurni ma artificiali sulla facciata con un logotipo in cui le caratteristiche lettere “G” del marchio Guggenheim si muovono come ingranaggi, formando il numero 25. In attesa di vedere, dal 25 febbraio prossimo, Jean Dubuffet: fervente celebrazione – un’esposizione che esamina i decenni decisivi della carriera dell’artista francese – abbiamo visto “Alice Neel: prima le persone”, la grande retrospettiva dedicata alla pittrice statunitense (Pennsylvania 1900-New York 1984) che per tutta la sua vita fu molto attenta alla vulnerabilità dei disagiati e alle lotte emotive e fisiche delle donne. Iniziare il percorso con Ragazza francese (French Girl, 1920) - eseguita probabilmente durante il suo soggiorno presso la Philadelphia School of Design for Women - e il Ritratto di Carlos Enríquez (1926) - un’opera dalle pennellate fluide che viene esposta nel 1927 a La Habana – è stato un colpo vincente del museo spagnolo.

Splendide davvero le opere da lei realizzate a New York, la città dove la Neel andò a vivere dopo Cuba, ritraendo la diversità e la lotta della sua gente, oltre ai parchi (Central Park su tutti) e ai suoi edifici. Per quasi trent’anni visse con la sua famiglia nello Spanish Harlem e fu lì che decise di catturare con il pennello l’anima dei suoi vicini, una popolazione etnicamente diversa e svantaggiata che sino ad allora raramente era stata soggetto artistico, documentando così scene di perdita e sofferenza, di forza e di resistenza. La sua attenzione alle vulnerabilità fisiche e psicologiche dei personaggi, rafforzata dalla sua palette ristretta, viene fatta con una franchezza implacabile e un’acuta empatia. Nel mezzo, opere dedicate alla nudità e alla sessualità – argomenti centrali nelle sue opere in quanto parte dell’esperienza umana – come mai fatto prima, soprattutto da una donna. Nudi maschili e donne incinte risaltano su quei quadri in cui il corpo appare sempre senza scuse e in tutta la sua onestà. Il quadro dedicato all’amica artista Ethel Ashton e quello – provocatorio e censurato all’epoca – a Joe Gould ne sono l’esempio, così come il suo autoritratto, una critica a una società che non era abituata a vedere corpi del genere rappresentati nelle belle arti o nella cultura popolare. La pittrice criticò comunque l’arte astratta (pur avendola sperimentata nei quadri raffiguranti la natura morta), qualificandola come “anti-umanista”, per poi dire però, verso la fine della sua carriera, che tutti i grandi dipinti hanno “buone qualità astratte”, denotando così che la sperimentazione formale e tecnica è sempre stata presente nella sua prassi.

Restando in tema, è dedicata alle “Donne dell'astrazione” l’omonima mostra (visitabile fino al 27 febbraio) che ha come proposito quello di scrivere la storia dei contributi che le artiste donne hanno dato all'astrattismo durante il XX secolo fino agli anni Ottanta, con alcune incursioni nel XIX secolo. Sono più di centro le artiste presenti con le loro opere, un vero e proprio racconto – a cura di Christine Macel e Karolina Lewandowska, in collaborazione con Lekha Hileman Waitoller – che intende essere aperto e che si espande abbracciando la danza, le arti decorative, la fotografia e il cinema. Largo spazio anche alla modernità dell’America Latina, del Medio Oriente e dell’Asia senza dimenticare le artiste afroamericane e spagnole sin troppo snobbate che nell’insieme configurano una storia di molteplici voci che vanno ben oltre i canoni occidentali. Louise Bourgeois incanta Elizabeth Murray, Atsuko Tanaka e Katarzyna Kobro; Virginia Jaramillo confonde ma attrae come Alice Essington Nelson, Anni Albers, Gertrud Arndt, Benita Koch-Otte, Elsa Thiemann e Florence Henri, compresa Georgiana Houghton, presente all’inizio della mostra con le sue opere del decennio 1860 volte a dare rilievo alle origini cronologiche dell'astrattismo, facendole risalire fino alle sue radici spiritualiste. Ognuna è lì e dice la sua, ognuna a suo modo, mettendo così in rilievo i processi che le hanno quasi sempre portate ad essere invisibili per troppo tempo fino a individuare alcuni eventi chiave che hanno segnato la storia dell'astrattismo.

Non fu affatto una bizzarra astrazione il progetto di Gehry, sicuramente audace per l’epoca, ma un’idea ben precisa che tenne conto del contesto storico e geografico della città come dimostrano le forme di questo museo che richiamano in maniera evidente la posizione di Bilbao sulle rive dell’oceano con il porto, i cantieri navali, i vecchi e i nuovi quartieri, la loro bellezza e importanza. Fondamentali sono le finestre la cui forma è totalmente razionale, in contrapposizione all’aspetto esterno delle facciate, volute dall’architetto, oggi ultra novantenne, e realizzate con una forma geometrica perfetta, inserite in una serie di blocchi rettangolari che contrastano con la parte del museo, quella più famosa, fatta di curve metalliche e di spirali immense. Basta scendere sulla sinistra dell’ingresso per trovare una scala esterna che porta a una passerella parallela alla facciata nord da cui è possibile ammirare il fiume in tutto il suo splendore. Noterete così che le forme ritorte e curvilinee sono state volutamente coperte di pietra calcarea, vetro e titanio al posto del più scontato acciaio inossidabile, perché – come ha detto più volte lo stesso Gehry – “l’acciaio non somiglia al cielo di Bilbao”.

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