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Cent'anni di “Trilce” di César Vallejo, il poeta che mostra la purezza dell'assurdo
Elsa Morante scelse un suo verso a epigrafe per "La Storia", "por el analfabeto a quien escribo". Una scrittura che si regge sul paradosso e sull’ossimoro, in cui un'energia imperiosa fa da contraltare alla sofferenza e alla solitudine
Oltre all’Ulisse e alla Terra desolata, pilastri del canone novecentesco in tutto l’occidente, nel 2022 compie cent’anni anche un altro libro sfrenatamente sperimentale, la raccolta poetica Trilce di César Vallejo. Grande poeta peruviano nato in un villaggio andino nel 1892 e morto povero a Parigi nel 1938 (le date quasi coincidono con quelle della vita di Mandel’štam), Vallejo non ha avuto molta fortuna in Italia. La sua opera, pubblicata negli anni 60 da Lerici e riproposta in seguito da alcuni piccoli editori, è rimasta quasi sempre introvabile. Onore quindi ad Argolibri, che oggi mette in circolazione Trilce, e al suo curatore Lorenzo Mari, che oltre a tradurre i versi li ha introdotti, scortandoli anche con una postfazione in forma di glossario e con un intervento di Giuliano Mesa. Mari ci dà versioni spesso più suggestive di quelle ormai storiche di Roberto Paoli; e lo fa, come rivendica, prendendosi la libertà di riecheggiare la tradizione lirica del ’900 italiano. Trilce viene dopo Gli araldi neri, la raccolta d’esordio del 1918, compostamente romantica e campestre, e subito prima del viaggio in Europa, accompagnato da un lungo silenzio. Le poesie uscite nel 1922 sono segnate dalla morte della madre, da una rottura sentimentale, e dai mesi trascorsi in carcere per un’accusa ingiusta.
Leggere Vallejo non è facile. Non solo perché ci mancano i riferimenti culturali necessari a capirlo fino in fondo, ma anche perché nei suoi testi i nessi logici sono vertiginosamente scorciati o aboliti; e, quel che più conta, l’oltranza sperimentale non percorre una direzione sola, non è mai definibile come “cubista” o “futurista”, “modernista” o “surrealista” ante litteram. “Assurdo, solo tu sei puro”, dice Vallejo verso la fine del libro; e per onorare questa purezza, fa in modo che ogni verso indichi uno scarto imprevedibile rispetto al precedente. Si ha l’impressione di veder crescere di continuo un organismo sopra un altro con mostruosa, traboccante energia: è come se la poesia si scrivesse sotto i nostri occhi mentre ne scorriamo le strofe. E si tratta di una poesia sghemba, ingombrante, dove le parole più che simboli sembrano oggetti materiali. I giorni della settimana, i numeri, le piante, i termini più quotidiani e i più tecnici o astrusi vorticano enigmaticamente intorno a straziate esclamazioni sentimentali. Ogni ambito della vita penetra negli altri attraverso un incastro brutale quanto disinvolto. La lingua viene sottoposta a una pressione sconvolgente, ma il tono resta sempre perentorio: non siamo lontani da Amelia Rosselli. Come nella sua poesia forse più famosa, “Pietra nera sopra una pietra bianca”, e come nel suo verso scelto a epigrafe da Elsa Morante per La Storia (“por el analfabeto a quien escribo”), anche in Trilce la scrittura di Vallejo si regge sul paradosso e sull’ossimoro: così “mi sono seduto ora / a camminare”, dice il poeta, oppure “ho perfino dimenticato / chi sarò”.
La figura della contraddizione rivela uno smarrimento angoscioso nel tempo e nello spazio. Con le sue piogge e i suoi soli, le sue celle e le sue sagome materne, la seconda raccolta vallejana esprime infatti una tremenda solitudine, che induce a cercare la complicità della natura più scabra (“Oh pietra, cuscino finalmente filantropo”); e soprattutto esprime il terrore, per dirla beckettianamente, di morire prima di nascere: “Che tiri le somme della mia vita / o le somme del non essere ancora nato, / non riuscirò a liberarmi”. E’ come se la catena dei secoli di schiavitù india gravasse sull’autore costringendolo a “salire verso il basso” prima di prendere forma, spingendolo ancora embrione dentro un mondo infero. Non per caso molti dei passi più memorabili, e aforistici, sembrano al tempo stesso incipit e sentenze finali: “Vi dico, dunque, che la vita è nello specchio e voi siete l’originale, la morte”.
L’ombra del congedo pesa su tutte le pagine di Vallejo. Alfonso Berardinelli ha osservato che la sua tristezza pervasiva arriva a impregnare le cose inanimate, e ha spiegato la “inusitata mescolanza” di sostanze nell’opera del peruviano con il “vorace dispotismo della sofferenza”. Ma a far da contraltare a questo dispotismo c’è in lui l’energia imperiosa di cui si diceva, e che si sprigiona forse proprio da un senso radicale d’indefinitezza: sentendosi informe, il poeta si proietta tutto sul futuro, scatena il galoppo anarchico dei sensi e dell’intelligenza, registra grumi percettivi di stupefacente intensità senza distinguere tra gli abissi e le increspature minime del terreno. Mari cita dall’epistolario una frase in cui sono fissati splendidamente l’essenza e il prezzo di questa condizione: “A causa della mia libertà”, ha scritto Vallejo, “mi sento alle volte circondato da uno spaventoso senso del ridicolo, come se fossi un bambino che si infila un cucchiaino su per il naso”.
Intervista a Gabriele Lavia