l'altra praga

Per capire l'ironia di Kafka, leggere lo squinternato Jaroslav Hašek

Marco Archetti

Due praghesi più vicini di quanto sembri, celebrati dalle parole di Bohumil Hrabal nel segno dell'ironia ceca.

Praga. Primavera del 1911. Uno sconosciuto sui trent’anni entra nell’osteria Kravìn, sede legale del “Partito del progresso moderato nei limiti di legge”, invenzione dadaista che presenzierà alle elezioni e vedrà il suo unico candidato raccattare 38 voti. Quel candidato si chiamava Jaroslav Hašek. Quanto allo sconosciuto, di lì a un anno non lo sarà più: scriverà La metamorfosi.

 

Non ci sono notizie di un altro incontro tra l’introverso e solitario Franz Kafka e il più sregolato e radicale scrittore di Praga. Quel che è certo è che i due si incontreranno sempre nelle parole di Bohumil Hrabal, che celebrerà la loro grandezza nel segno dell’ironia praghese, fenomeno che descriverà così: “L’ironia praghese è una tipica espressione della mentalità di Praga, di un certo modo di vivere e di un certo senso dell’esistenza, considerando Praga la capitale della provincia centroeuropea”.

 

Per Hrabal la centralità di Kafka è essenziale a quella di Hašek. “Dopo il 1945”, dichiarò in un’intervista a László Szigeti, “questo incrocio della cultura ceca, tedesca ed ebraica è stato abolito, dunque si può parlare di ironia praghese soltanto come storia: i suoi due interpreti sono Kafka e Hašek, i più grandi in assoluto. La loro ironia fu la più alta libertà possibile in un mondo senza Dio”.

 

Al crepuscolo degli dèi, si intravedono due praghesi. Certo diversissimi, ma meno di quanto si pensi, se Kafka, del primo test con gli amici del primo capitolo de Il processo, dirà che a malapena era riuscito ad arrivare fino in fondo a causa delle risate di tutti, comprese le proprie. Nel 1988, quando interpretò Gregor Samsa al Thèatre du Gymnase di Parigi nell’adattamento di Steven Berkoff de La metamorfosi, Polanski dichiarò: “La comicità di Kafka sfugge a uno spettatore non est europeo, abituato o forse condannato, dalla scuola e dai libri, a considerare Kafka come lo scrittore della colpa e a leggere le sue opere come allegorie”.

 

Forse Kafka andrebbe letto come si legge Hašek? Certamente, di Hašek, non andrebbe letto solo il pluritradotto e incompiuto capolavoro Il buon soldato Sc’vèik – che proprio cent’anni fa lo scrittore (non) finiva di elaborare –, ma l’intera sua produzione di racconti; eccellente il Meridiano Mondadori del 2014, che dà conto di ogni sfumatura della sua grandezza sgangherata e inconcepibile. Hašek era avanguardia: scriveva con uno pseudonimo su un giornale di destra e poi, con un altro pseudonimo, polemizzava con se stesso da un giornale di sinistra – ci sarebbero, forse, gli estremi per parlare di eteronimi, ma certi terreni sono sacri, e Hašek era noto non nelle accademie ma nelle taverne, dove scriveva, senza mai rileggere, i suoi folli racconti.

 

Pre-dadaista, scettico radicale, suicida mancato e squinternato senza fissa dimora, nel 1911 firmò più di centoventi tra satire, articoli, pezzi di cronaca e pièce di cabaret di cui non resta traccia. Due anni prima si era impiantato a vivere presso il pittore Josef Lada e alla porta aveva infisso una targhetta con scritto “Imperialregio scrittore, padre dei poveri dei spirito, chiaroveggente autorizzato”, al culmine di un curriculum che già annoverava una ventina di arresti per vagabondaggio, ubriachezza e risse, una condanna di primo grado per contraffazione di cani (li pitturava per farli sembrare di razze originali e venderli a caro prezzo) e un licenziamento dalla banca Slavia, impiego cui si sottomise per ottenere la mano della lentigginosa Jarmila, sposata nel 1910. Il matrimonio naufragò mentre lui si univa legalmente (e contemporaneamente) con Aleksandra L’vova.

 

Erano gli anni in cui viveva a Irkutsk, dopo la liberazione da un campo di prigionia russo. Membro del soviet cittadino e attivo nei bolscevichi, diresse tre riviste in tre lingue diverse. Tornò a Praga solo nel 1920. Dopo tre redazioni e una sbronza monumentale via l’altra, provò a finire Il buon soldato Sc’vèik, ma invano. Si troverà a vagare fino a Lipnice, dove si impantanerà e morirà nel 1923 di cirrosi epatica.

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