La lezione modernista di un grande maestro dell'Ottocento
Con molto anticipo, anche Francesco De Sanctis vedeva nel mezzo il messaggio. La sua lettura della Francesca da Rimini di Dante è un saggio di sublime misofilia che le femministe radicali dovrebbero studiare
Leggendo Dante e la critica dantesca nella famosa quiete della campagna, perché “Roma mi fe’ / rifecemi Maremma”, mi sono imbattuto in un campione di modernismo della metà di due secoli fa, l’Ottocento, e si chiama Francesco De Sanctis. De Sanctis è uno di quei giganti che i nani ritengono superato, lo bollano di critica romantica, idealistica, lo inquadrano e ne fanno un professore dei professori di liceo, passando oltre. Non siamo ancora arrivati alla sostituzione del monumento, alla cancellazione della perentoria solenne rilevanza del suo genio letterario e estetico, perché un po’ di pudore ha sconsigliato manovre troppo brusche, ma con le tecniche incrociate dell’oblio, della consegna al passatismo, si realizza il progetto di ogni innovazione bigotta: spacciare per novità le cose già dette.
Marshall McLuhan diceva che il mezzo è il messaggio e i tipi alla Freccero ne hanno fatto il campione della semiologia contemporanea, la chiave del loro lavoro e successo linguistico di decrittatori e decostruttori della cultura alta con l’aiuto della bassa (lavoro terminato con la campagna no vax indirizzata alla denuncia del grande reset). McLuhan era intelligente e ha aiutato a capire che i significati sono condizionati all’estremo dai vettori di significazione, ragion per cui una scenetta di Barbara D’Urso, nella dialettica di alto e basso, vale a comprendere il tempo come e forse più dell’intera bibliografia di Virginia Woolf. L’esagerazione viene dal fatto che s’ignora o si nasconde come il vecchio e baffuto ministro dell’Istruzione pubblica nel Regno, critico e filosofo da Morra Irpina, aveva già scritto e definito, prima di televisione e social, fissando l’occhio esclusivamente verso l’alto ma procurando di vedere l’oggetto poetico e non l’occhio stesso (lo scrittore a scomparsa della dottrina di Flaubert) il fatto che l’idea, il concetto, la struttura allegorica in un racconto poetico non contano, perché è poesia quando l’idea o concetto o messaggio è disvelata e nascosta dall’immagine, dall’espressione, dalla rappresentazione, solo lì trionfa il mezzo. Perché per lui appunto, e con molto anticipo, il mezzo era il messaggio.
Un altro grande assunto dai modernisti militanti come campione di cinismo letterario fu Vladimir Nabokov, eccellente nemico di ogni messaggio e di ogni concettualizzazione e mitico combattente per il mezzo artistico che sopravanza e abolisce nell’espressione, superandoli, i significati. Ma anche qui tutto era stato detto. Quando De Sanctis spiega o legge Francesca da Rimini, nel canto V dell’Inferno, quel che gli interessa è, in un saggio di sublime misofilia che le femministe radicali dovrebbero studiare prima di ogni ricerca sul gender, il ritratto di una donna viva e vera che colloca Madame Bovary, con le sue passioni tremanti, nel pieno di un giorno indefinito del 1300 (XIV secolo). E lo scritto mirabile, in cui è una distinzione tra la il riso e la bocca che ride di sovrana pregnanza, è dell’epoca in cui Gustave Flaubert stava appunto definendo, nello stile poetico assoluto e nell’oggettivismo senza partecipazione dell’io scrivente (dateci le lacrime delle cose e risparmiateci le vostre, altro flaubertismo desanctisiano), la famosa e immortale storia di un’adultera. Rassicuriamoci dunque, anche il 2022 sarà un anno di modernismo nel segno dell’antico liceale. Niente di nuovo sotto il sole. E molti auguri.
Intervista a Gabriele Lavia