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A Natale abbuffatevi di libri. Cinque titoli per cinque portate (più l'ammazzacaffè)

Giulia Ciarapica

Avete presente quella storia del “cibo per la mente”? Ci siamo ispirati a quella per indicarvi la via giusta, pensando a come avviare e concludere pranzi e cenoni

Quando pensiamo ai consigli di lettura per il Natale, solitamente immaginiamo di poter dare uno spunto, un’idea, toh, un’ancora di salvataggio, a chi magari non sa proprio cosa regalare ad amici e parenti: e allora che fai? Un libro per fare bella figura, te lo fai sfuggire? Vuoi non soccorrere lo zio che non ha la più pallida idea di cosa regalare a quei nipoti che vede una volta l’anno e solo per le feste comandate?

  

Ecco, stavolta no. Non pensate agli altri, fregatevene del tutto, pensate a voi; pensate soprattutto a come uscire incolumi da questa festività, magari tenendo botta tra una portata e l’altra.

  

Avete presente la storia dei libri come “cibo per la mente”? Più o meno ci ispireremo a quella per indicarvi la via giusta, pensando a come avviare e concludere il pranzo di Natale estraniandovi da chi vi sta intorno, e gustando qualche pagina tra un’oliva ascolana e una fetta di pandoro.

   

Cinque titoli per cinque portate più l’ammazzacaffè, con un unico filo conduttore: scuotersi dal reale per raggiungere un tempo passato e/o fantastico cui aggrapparsi nei momenti di maggior confusione, o a cui guardare con un briciolo di sano azzardo, convinti che prima o poi riusciremo anche a noi a immergerci nella materia oscura, privi finalmente della paura di non venirne fuori.

  

E forse riuscendo anche a saltare il pranzo coi parenti, ma al prossimo giro.

  

Antipasto

Cocktail di gamberi, panettone gastronomico, insalata russa e “Lettere all’editore. Alba De Céspedes e Gianna Manzini, autrici Mondadori” di Sabina Ciminari (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori)

"Caro Mondadori, (…) Come vuole che un autore della mia specie, non abituato e non aspirante (per forza di cose) ai 'grandi successi', possa consentire che sue opere, costate – non foss’altro – lavoro, dedizione e sacrificio non immaginabili, vengano svendute?". Da uno degli stralci delle lettere di Gianna Manzini ad Arnoldo Mondadori vengono fuori tantissime cose, poche righe – come quelle riportate – per far capire al lettore quale fosse il modo d’esistere di un’autrice e la sua consapevolezza di essere, appunto, una autrice e non un autore; non a caso lei stessa, in “Scacciata dal paradiso” (primo giugno 1963), ribadisce: "Bisogna riconoscerlo: la donna è stata scacciata dal paradiso dell’attenzione. (…) Nel vivere a due, le càpita di restare come chi bussa a una porta, sapendo che rimarrà chiusa".

  

Le “Lettere all’editore” di Sabina Ciminari ci aprono un mondo variegato e al tempo stesso dal confine ben delimitato: il perimetro fisso è dato dall’argomento – il rapporto editore, Mondadori, e autrici, De Céspedes e Manzini – mentre l’area più vasta, sebbene non illimitata, è data dalla verticalità di un testo che prende avvio dal particolare per arrivare a definire caratteri, indole, personalità e varie forme di talento letterario. Mentre De Céspedes è forse la più mondadoriana delle due scrittrici, Manzini incarna “l’altra faccia della politica culturale” di Mondadori.

 

L’indagine delle epistole – che contribuiscono a fare luce su alcuni aspetti della diffusione dei testi (copertine, risvolti, dépliant pubblicitari, eventuali note, prefazioni e illustrazioni) – costituisce un interesse per i lettori dal punto di vista anche intimo e privato, rispetto alle persone che le scrivono e le ricevono. Se da un lato De Céspedes e Manzini lottano con il problema del giusto riconoscimento del proprio profilo intellettuale e con il pregiudizio relativo alla loro immagine e a quella dei loro libri, dall’altra vien fuori un atteggiamento dell’editore assai diverso da quel che oggi, talvolta, riscontriamo. Leggiamo infatti Arnoldo che scrive a suo figlio Alberto: "Ti dico tutto questo, caro Alberto, per convincerti in quanto tu dovrai continuare la mia opera in questo delicatissimo settore: l’editore si fa soprattutto col cuore, con l’intuito di quanto vuole e desidera il contraente e quindi necessità di accontentarlo anche se non troppo; in una parola, ripeto, deve essere tanta e tale la stima che ogni contraente deve avere per l’editore, da mettere questi al disopra di tutti".

   

Con “Lettere all’editore” Sabina Ciminari ha realizzato un lavoro eccellente: un testo variegato, un progetto di ricerca che consente finalmente al lettore di esplorare livelli di lettura multipli, da quelli più curiosi e intriganti a quelli, perché no, più riservati e umani, dove i ruoli di editore e autore s’incrociano fino a fondersi per poi allontanarsi, mantenendo sempre un rapporto reciproco di estrema fiducia.

 

Primo piatto

Lasagne alla bolognese e “La biblioteca dei sussurri” di Desy Icardi (Fazi)

La tradizione è tradizione, e il primo piatto natalizio dev’essere per forza di cose a base di lasagne o affini. Dunque, nel pieno rispetto della tradizione nostrana, non potrete evitare di immergervi nelle pagine di Desy Icardi, che ogni volta ci regala una storia dal sapore antico, tipicamente italiano, a tratti favolistica e a tratti ben agganciata al reale.

 

Questa volta con “La biblioteca dei sussurri” ci muoviamo sempre nella città di Torino ma in compagnia di una bambina, Dora, che si chiama come il fiume su cui sorge la sua casa rumorosa e piena di gente, e come la prozia, Dora detta Dorina degli Spifferi, perché il suo lavoro consiste proprio nel curare le cosiddette “case lamentose”, piene di Spifferi che somigliano a brontolii, lamenti, pianti sommessi e ricordi di sofferenze incastrate fra le mura. Nessuno si permette mai di dire che questi famosi Spifferi siano fantasmi o presente ultraterrene, no di certo, ma è ovvio che la dimensione dell’“oltre” – chiamiamola così – sia molto cara tanto a Dorina quanto alla piccola Dora, che dalla prozia ha ereditato il dono di “sentire”.

  

Quello di Icardi è un romanzo di formazione che guarda alla famiglia come un nucleo eterogeneo ma compatto, all’interno del quale ogni componente ha una vita definita ma mai definitiva, parallela a tutte le altre eppure a sé stante. In un contesto in cui i rumori la fanno da padrone, Dora cresce nella consapevolezza che il silenzio è sinonimo di dolore e di dispiacere, mentre il suo udito di bambina “speciale” riesce a cogliere non solo i lamenti che Dorina le ha insegnato a captare, ma anche i suoni “felici”, scoperti in biblioteca durante un’afosa mattina d’agosto della metà degli anni Settanta. Spinta dal cugino Fulvio, Dora inizierà il suo cammino da lettrice grazie all’avvocato Edmondo Ferro, ultra centenario e lettore incallito, guidandola alla scoperta delle storie che le insegneranno a riconoscersi nelle eroine, negli eroi e nella gente comune che popolano i grandi capolavori della letteratura mondiale.

  

È così che, ancora una volta rispetto ai due romanzi precedenti, Desy Icardi lascia che il lettore arrivi al cuore del messaggio letterario, che è salvifico sì, ma anche irto di dubbi e rare certezze, perché l’autrice lo sa bene, che la Letteratura – quand’è tale – non fornisce risposte ma soprattutto domande, sebbene i libri abbiano una missione precisa come dice l’avvocato Ferro alla piccola Dora: "Perché credi che tante persone amino leggere a letto? (…) Certamente perché si tratta di un posto comodo nel quale difficilmente si viene disturbati, ma c’è un altro motivo tanto valido quanto oscuro: questi lettori lo fanno per vincere la paura della morte".

  

“La biblioteca dei sussurri”, con l’ironia e la leggerezza tipicamente calviniana che contraddistingue da sempre Desy Icardi, dona al lettore/spettatore un ruolo attivo nel romanzo, facendolo sentire vicino ai suoi protagonisti e rendendolo partecipe di un processo che è comune a qualsiasi lettore forte: ritrovarsi nelle storie seguendo la voce dei libri, e riconoscendo la propria.

 

Secondo

Filetto in crosta e “Le stanze buie” di Francesca Diotallevi (Neri Pozza)

"Abituato com’ero ad avere tutto sotto controllo, non sapevo orientarmi in quel caos", dice Vittorio Fubini, voce narrante e protagonista de “Le stanze buie” di Francesca Diotallevi (tornato in libreria per Neri Pozza, dopo la prima pubblicazione nel 2013, a seguito di profonda revisione), un romanzo che riempie e avvolge come le migliori storie gotiche della tradizione italiana e che non possiamo non scegliere per accompagnarlo col filetto in crosta: piatto classico, raffinato e sempre elegante, degno di una dimora come Villa Flores, località di ambientazione del romanzo.

   

A Villa Flores, dove Vittorio arriva in seguito alla morte dello zio Alfredo – che in realtà non ha mai conosciuto, nonostante le attenzioni riservategli dall’uomo nel corso di tutta la vita, seppur a distanza –, qualcosa di inesprimibile e di sensazionale sembra muoversi fra le stanze mal illuminate e le tende spesse, che sanciscono la distanza della casa rispetto al resto del mondo; un luogo lontano e isolato, così come lo sono le vite di chi la abita, dal padrone Amedeo Flores, uomo cupo e autoritario, a Lucilla, moglie anticonformista e ribelle, profumiera acuta e lungimirante costretta ad una vita che non le appartiene, fino ad arrivare alla piccola Nora, la figlia, e alla servitù: Ottavia, Fosco e la signora Novaro. Ognuno, a Villa Flores, pare trascinare un carico emotivo da scontare in rigorosa solitudine.

  

È in questa piccola provincia piemontese, a Neive, a metà dell’Ottocento, che Diotallevi imbastisce un romanzo carico di suspense e pathos, al centro del quale non ci sono solo i fantasmi della Villa ma c’è soprattutto il passato, con i suoi ricordi ingombranti e la paura di non riuscire a dimenticarli: ad alimentare il sospetto che tanto Vittorio quanto Amedeo dovranno giungere ad una resa dei conti più dolorosa del previsto c’è Lucilla, che attraverso i suoi profumi – proprio come accade nel romanzo di Luigi Capuana, “Profumo” –, si farà ponte, mezzo umano per raggiungere un mondo parallelo fatto di memoria, sangue e colpe. È lei la donna scapigliata per eccellenza, l’elemento che spicca all’interno della storia per ricordarci quanto la tradizione di Tarchetti, Praga, Boito, Arrighi sia presente nel romanzo: Lucilla è il collegamento diretto – appassionato e tragico, irrequieto e autentico – tra il presente (Vittorio) e il passato (Amedeo), il laccio che tiene uniti gli spettri di una vita intera a dispetto della volontà degli uomini.

 

La verità di Villa Flores, con i suoi segreti funesti che si tingono di candore nel momento in cui sarà Nora a nominarli, saranno destinati ad affiorare tra le neve e il silenzio di un mondo perduto.

   

Contorno

Insalata di finocchi e arance, cipolline in agrodolce e “Atti di sottomissione” di Megan Nolan (NN Editore)

"Mi raggomitolavo e mi nascondevo per dire che ero niente, ed ero felice di essere niente se il niente era ciò che più lo soddisfaceva. Se il niente era il minore dei guai, allora lo sarei stata, e con gioia. Sarei stata completamente vuota e immobile se era quello che voleva, o rumorosa quanto bastava per riempire i suoi silenzi. Sarei stata vigorosa e vitale se si annoiava, e quando si fosse stancato, sarei diventata prosaica e noiosamente utile come le posate".

Il pranzo di Natale è forse uno dei momenti più inappropriati ed alienanti per leggere un romanzo del genere, e proprio per questo – per mettere una pausa, per spizzicare qualcosa in attesa del dolce, e aver tempo di riflettere a cosa rispondere quando in modo inopportuno qualcuno ci chiederà “E il fidanzato?” – va letto e assimilato come fosse esso stesso un piatto, mangiato in mezzo a gente che poco o nulla, di solito, sa di noi.

Megan Nolan costruisce una storia di anti-amore ambientata a Dublino, città che spesso viene tratteggiata con le tinte scure della notte e dell’incubo. Perché in fondo, quello che vive la protagonista del romanzo, è un incubo a più strati, fatto di percezioni sbagliate, atteggiamenti distorti, falsi miti e false credenze che lei stessa s’infligge in un gioco di specchi malevolo e controproducente. La relazione tra la protagonista e Ciaran nasce in un’alternanza di estasi e sofferenza, di gelosia sfrenata unita a un piacere così intenso e bruciante da creare dipendenza.

Nella forma del “non amore” più comunemente inteso – quello tra uomo e donna – rientra però anche la dimensione del “non amore” verso sé stessi, il germe più pericoloso da cui scaturiscono i problemi di accettazione da parte della protagonista: non accettazione del proprio corpo, non accettazione di sé come essere umano pensante e desiderante, non accettazione del mondo circostante inteso come qualcosa che collima con la parte più brutale di noi. “Atti di sottomissione” è prima di tutto un romanzo di scelte, anche e soprattutto quando scegliere significa scegliere di non scegliere, o scegliere di essere soltanto ciò che l’altro vuole, indipendentemente da sé.

Provocatorio e dissacrante, questo testo crudo nella sua forma semi-diaristica permette al lettore di fare i conti con la realtà, di scendere a patti col vero e con il tremendo che ci abita, e forse, finalmente, di farci pace.

O forse no.

 

Dolce

Pandoro o panettone (con i canditi) e “Le scrittrici della notte” a cura di Loredana Lipperini (Il Saggiatore)

"Lo trovammo nell’ultima camera. Giaceva su di una branda, già rigido, ed era un ometto assai piccolo, che gli anni avevano ulteriormente curvato e rinsecchito. Non riesco a figurarmi i suoi lineamenti diversi da come li vidi allora, fissati nell’immobilità della morte".

Abbiamo lasciato per il dolce uno di quei testi che fa da apripista al varco notturno, entrando a gamba tesa nell’ombra e nell’oscurità. È risaputo, ormai, che la notte di Natale conservi qualcosa di profondamente orrorifico (ad insegnarcelo sono stati gli inglesi), e chi meglio di Loredana Lipperini, che di letteratura fantastica e gotica è una delle maggiori esperte in Italia, poteva curare una raccolta dedicata ai racconti “della notte”, pensati e composti da donne – gli esseri per antonomasia più vicini alla vita e dunque alla morte?

Anche in questo caso, come spiega bene Lipperini nella prefazione prendendo una posizione che più chiara (e condivisibile) non si può, la letteratura fantastica sembra essere non solo un genere che allontana, ancora oggi, i lettori – i quali, in larga parte, considerano la letteratura semplicemente come qualcosa di “diverso” –, ma si tratta di un genere ad appannaggio pressoché maschile (come quasi tutto il resto, verrebbe da dire se solo fossimo in vena polemica – e al pranzo di Natale, lo siamo eccome). Ma ancor prima di appurare che scrittrici come Carolina Invernizio (ricordate? La famosa “onesta gallina” a detta di qualche intellettuale dell’epoca), la Marchesa Colombi (prima firma femminile del Corriere della Sera nonché cofondatrice, assieme al marito, del suddetto giornale), Paola Masino (genio provocatore e visionario del Novecento, compagna di un autore altrettanto provocatore e visionario, Massimo Bontempelli), Anna Maria Ortese (la più dichiaratamente “fantastica” del gruppo di scrittrici qui menzionate), Gilda Musa, Matilde Serao, Grazia Deledda (tuttora unica italiana ad aver vinto il Nobel per la Letteratura, e puntualmente sempre troppo poco ricordata) e Chiara Palazzolo, si sono avvicinate alla materia del perturbante con un’audacia e un risultato eccellenti, sia dal punto di vista strettamente tematico che da quello stilistico, occorre soffermarci su una questione annosa e un po’ antipatica: «l’equivoco» scrive Lipperini "è pretendere che la letteratura racconti la realtà: ciò evidentemente non è nella sua natura".

Niente di più sincero, specie quando della ricerca del realismo vogliamo farne un obbligo. Cosa c’è di più vero dell’ossessione della morte, della spietatezza del potere, del racconto impietoso e veritiero di una nazione che marcisce accasciandosi su sé stessa, o della frustrazione delle donne che non riescono a impossessarsi di un ruolo sociale degno di nota? Direte voi, beh, sono tutti temi trattati dall’autofiction. No, o meglio, non solo: Lipperini, da grande lettrice ancor prima che autrice, ricorda senza esclusioni che le Mary Shelley, le Shirley Jackson, così come gli Stephen King, i George R. R. Martin o le Angela Carter, sono sì autori del cosiddetto “fantastico”, ma che, nella realtà dei fatti, di questa materia si sono serviti per raccontare ciò che noi comunemente chiamiamo “vero”.

E dunque, cosa c’è di meglio che attraversare la parte finale di una pranzo, o ancor più di una cena di Natale, leggendo ad alta voce uno dei racconti dell’antologia “Le scrittrici della notte”, per convincere tutti i presenti che nulla è vero finché non raggiunge l’universo della finzione e dell’inquietudine?

  

Ammazzacaffè

Varnelli – senza se e senza ma – e “Natale con i fantasmi” (Neri Pozza)

"Arrivammo sotto una pioggia torrenziale, un vero acquazzone, che spaventò i cavalli. La notte era cupa, e mentre l’acqua scorreva fuori dai finestrini della carrozza pensai, Questo diluvio si è scatenato per travolgerci".

Dopo il dolce c’è, d’obbligo, l’ammazza caffè – in stile marchigiano, col Varnelli! – e si prosegue rigorosamente sulla scia del notturno e del perturbante con la raccolta “Natale con i fantasmi” edita da Neri Pozza. Otto storie scritte da otto autrici e autori britannici (Bridget Collins, Imogen Hermes Gowar, Natasha Pulley, Jess Kidd, Laura Purcell, Andrew Michael Hurley, Kiran Millwood Hardgrave, Elizabeth Mcneal) che conquisteranno la (vostra) scena natalizia con dei racconti spettrali sui quali riecheggiano gli insegnamenti di Henry James, Wilkie Collins e Charles Dickens – quest’ultimo, non a caso, grande estimatore, forse proprio fra i più appassionati, del genere gotico.

Troviamo una madre in fuga dal marito violento assieme al proprio figlio, e che di punto in bianco si ritroverà prigioniera nella casa in cui suo padre portava le amanti, scomparse tutte in modo misterioso e agghiacciante (una specie di Barbablù contemporaneo); e poi una giovane donna, immobile sulla cosiddetta “sedia meccanica” dopo una caduta da cavallo, la quale sembra entrare in contatto con una presenza che, muovendole la sedia, cerca di dirle qualcosa di misterioso e terrificante; e ancora, un uomo ossessionato dal gioco degli scacchi che prende in affitto una casa bianca e nera che di notte si trasforma in uno spaventoso regno degli incubi; un fotografo commemorativo che si ritroverà a che fare con una morta apparentemente “più viva che mai”.

Insomma, questo e molto altro è racchiuso nella raccolta più terrificante di sempre, che si arricchisce anche di una copertina coi fiocchi, in pieno stile Neri Pozza.

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