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Le macchine e l'uomo

Governare la complessità con il solo calcolo dei rischi calpesta l'umana ragione

Sergio Belardinelli

La cosiddetta intelligenza artificiale è senz’altro capace di compiere operazioni strabilianti, di calcolare qualsiasi cosa come nessun saprebbe fare, ma lo fa seguendo vie diverse da quelle dell'uomo. È questo può essere un problema 

Più la realtà si fa complessa e più la politica e il dibattito pubblico tendono alla semplificazione. Se guardiamo ad esempio alla pandemia, dobbiamo dire che persino gli scienziati finiscono spesso per cadere in questa paradossale situazione. Ma da che cosa dipende? Domanda complessa, si potrebbe dire, quindi guai a semplificarla. Tuttavia credo che non sia troppo temerario azzardare una seppur parziale, parzialissima, risposta. 

 

Gli scienziati sociali ci dicono che la complessità ha a che fare con i rischi che scaturiscono dall’avanzamento delle nostre conoscenze e del nostro potere tecnico, i quali a loro volta allargano lo spazio della nostra libertà, ma acuiscono anche, e qui sta un po’ il paradosso, il nostro desiderio di sicurezza. Evidentemente è su quest’ultimo desiderio che fanno leva le semplificazioni oggi tanto di moda, nascondendo dietro parole, il più delle volte vuote, la complessità dei problemi che sono sul tappeto e dell’intera realtà.  

 

Ciò che nelle società del passato sembrava dipendere da una sorta di destino, nella società moderna, tecnicamente sempre più potente, sembra dipendere soprattutto dalle umane decisioni. Questo è il primo punto che va fissato per comprendere un po’ la domanda da cui siamo partiti. Persino i danni e le vittime provocati da un terremoto o da una qualsiasi catastrofe naturale, vedi la pandemia, finiscono per essere imputabili a qualcuno. Ieri in certe situazioni tragiche avremmo potuto tutt’al più imprecare contro Dio o contro la natura, oggi imprechiamo invece contro coloro che non hanno costruito le case nel rispetto dei criteri antisismici, oppure, come nel caso del coronavirus, contro coloro che non hanno rispettato l’ambiente naturale, che non si sono fermati davanti a esperimenti di laboratorio estremamente pericolosi o che non si sottopongono al vaccino. Ovunque deve esserci un colpevole: questa la musica di accompagnamento ideologico che abbiamo posto sullo sfondo della società dei rischi e della complessità. 

 

I dispositivi tradizionali di vario tipo (religiosi, filosofici, politici) messi in campo per secoli, anche con successo, per mitigare l’incertezza dell’umana esistenza non funzionano più; la tecnica, come dicevo, da un lato la mitiga, ma dall’altro l’aumenta. Vaccinarsi contro il coronavirus è sicuramente più efficace e rassicurante che ricorrere a un fattucchiere. D’altra parte però, la stupida superstizione dei No vax potrebbe trovare supporto nella comprensibile paura di molti a vaccinarsi, dopo l’ingiustificato clamore sui possibili effetti collaterali agitato dai mezzi di comunicazione. In sostanza tutto sembra diventare fonte di inquietudine; insieme con le grandi opportunità che abbiamo di tenere sotto controllo molte contingenze della nostra vita, cresce anche un incontenibile bisogno di sicurezza, e poco conta che il più delle volte sia del tutto ingiustificato. 

 

Problema vecchio, si potrebbe dire. Ma dove è finito l’antidoto da sempre rappresentato dall’umana ragione? A tal proposito molti ritengono che la ragione debba limitarsi al “calcolo dei rischi”. Dipendendo sempre di più dalle decisioni che siamo chiamati a prendere nel momento presente, vuoi a livello individuale vuoi a livello politico-sociale, il nostro futuro si configura ormai come essenzialmente rischioso; non c’è più posto per le semplificazioni, né per certi progetti in grande, ritenuti capaci da abbracciare la realtà sociale nel suo insieme, garantendole stabilità. La ragione, si dice, può al massimo limitarsi al “calcolo dei rischi”. E sta bene, dato che nessuna ragione, nessuna scienza potranno mai togliere di mezzo l’incertezza che grava sulla nostra vita. Meno che mai potranno farlo le semplificazioni populiste. Tuttavia non credo che l’unica risposta razionale alla complessità debba essere il calcolo dei rischi. Mi sembra infatti una prospettiva troppo angusta per la ragione; una prospettiva che, affidandosi esclusivamente ai “calcoli”, potrebbe perdere di vista l’incalcolabile, ossia l’umana dignità e libertà.

 

Di fronte alla potenza di certi algoritmi che sembrano trasformare ognuno di noi in un semplice grumo di informazioni da elaborare e da utilizzare per i più svariati fini ci vorrebbe un sussulto di ragionevolezza. Non per ritornare alle società semplici dove tutto sembrava in qualche modo predeterminato, sia ben chiaro, né per disconoscere la grandezza di certe macchine “intelligenti” che siamo stati capaci di costruire. Ma soltanto per ribadire un principio: il paradigma della complessità non può diventare un pretesto per dire che ormai anche ciò che rappresenta il presupposto di ogni decisione, ossia l’“umano”, vada deciso in base a un calcolo affidato magari all’intelligenza artificiale. Le cosiddette macchine intelligenti sono senz’altro capaci di compiere operazioni strabilianti, di calcolare qualsiasi rischio come nessun uomo saprebbe fare, ma lo fanno seguendo una via diversa da quella dell’intelligenza umana. E questo è un punto importante, perché ci dice che complessità e intelligenza artificiale non sono una minaccia in linea di principio, ma soltanto se ci fanno dimenticare di essere noi uomini, pur con la nostra finitezza, la vera misura di tutte le cose.

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