Affezionarsi alle voci e ai vezzi dei quattro eredi di Bordin. Possibile? Eccome

Matteo Marchesini

Quattro eredi e uno stile diverso per ciascuno di loro. Com'è cambiata la rassegna “Stampa e regime” di Radio Radicale al tempo di Flavia Fratello, Carlo Romeo, Alessandro Barbano e Roberta Jannuzzi

Almeno dalle scuole medie, quando una persona mi affascina o le voglio bene comincio quasi involontariamente a mettere a punto una sua imitazione. Da allora, spesso gli amici mi chiedono di ripetere le voci e i gesti di conoscenti comuni o personaggi celebri. Una delle imitazioni che più ho condiviso nella mia vita adulta è stata quella di Massimo Bordin. Da quando non c’è più, a volte mi sorprendo ad abbozzarla ancora tra me e me. Ecco cos’è la nostalgia. “Eee… buongiorno da ‘Stampa e Regime’”: innumerevoli italiani si sono svegliati per decenni accendendo Radio Radicale e lasciandosi cullare dal basso bronchiale di quella voce impastata e ironica.

 

Un’arma formidabile della rassegna stampa di Bordin era la pausa improvvisa, a cui seguiva una ripetizione lenta, senza commenti, delle parole più improbabili di certi articoli. Ricordo ad esempio che nell’autunno del 2001, mentre leggeva rapidamente un pezzo sull’Afghanistan, si fermò di colpo, e con quel leggero sospiro che equivaleva al sarcasmo ripeté più volte: “Talebani… moderati…”. Ci scappò un “vabbè”, e proseguì. Nel tempo, Bordin aveva accumulato un repertorio d’intonazioni e intercalari, e chi lo seguiva in video sa quanto poteva essere espressivo anche il suo sguardo da grande attore stanco, come gravato da uno scetticismo di secoli. Certo, quello sguardo aveva a che fare col suo sterminato archivio mentale, che gli permetteva di collegare subito la notizia dell’ultima ora agli eterni corsi e ricorsi della cronaca politica o giudiziaria.

 

Oggi questo archivio, e la sua manifestazione corporea, non smettono di mancarci. Per un po’ di tempo dopo la sua morte, gli ascoltatori della rassegna stampa più leggendaria d’Italia hanno anzi creduto che sarebbe morta con lui – almeno dal lunedì al venerdì, dato che il sabato restava e resta il suo inventore Taradash. Ma poi il lutto è stato elaborato, e nel frattempo le frequenze radicali hanno cominciato a proporre un calendario piuttosto stabile, nel quale si alternano gli stessi quattro giornalisti. La durata è la forma delle cose, diceva Pannella. E così, a poco a poco, il pubblico si è abituato a riconoscere e accettare come voci familiari quelle di Flavia Fratello, Carlo Romeo, Alessandro Barbano e Roberta Jannuzzi.

 

La Fratello punta su un tono confidenziale: è come se pronunciando ogni frase, con suadente abilità televisiva, le aggiungesse una didascalia del tipo “sono una di voi”, “posso anche sbagliarmi”. Tende a soffermarsi sugli aspetti personali, e a trasformare i personaggi pubblici o gli sconosciuti saliti alla ribalta della cronaca in tipi un po’ buffi e un po’ sfacciati, a cui tirare maternamente le orecchie o mostrare una altrettanto materna indulgenza (li chiama spesso “questo signore”).

 

Assai diverso il piglio di Carlo Romeo, che con Radio Radicale ha una lunga consuetudine, e lo sottolinea chiamando in causa i tecnici o descrivendo i rumori dello studio. Romeo esorcizza i rischi del ruolo esagerando la disinvoltura, fingendo l’approssimazione, mischiando alla lettura qualche pittoresca memoria da vecchio cronista. Tiene la scena col respiro grosso e una voce sorniona, che ha un corpo e delle esigenze fisiche evidenti – prima di tutto la fame e la sete mattutine.

 

Se la sua rassegna è simpaticamente scamiciata, quella di Alessandro Barbano ha un andamento fieramente istituzionale. “Cari ascoltatori”, annuncia all’inizio – e lo annuncia con un tono di voce alto che mantiene poi fino alla fine, come se fosse in collegamento da un luogo affollato in cui si sta svolgendo una cerimonia olimpica. Barbano è molto preciso quando si tratta di giustizia, e in genere prende posizione con nettezza, componendo minuto dopo minuto un editoriale.

 

Infine, c’è Roberta Jannuzzi: che gioca in casa, dato che lavora a Radio Radicale, ma che proprio per questo deve sentire tutto il peso della responsabilità che le tocca nel gestire la mitica rubrica. Però non lo lascia trasparire. La sua voce sembra la voce stessa della ragione: dolce, ferma, appena animata da un sarcasmo ilare quando commenta frasi o contegni inconfutabilmente scandalosi. Il suo stile è analitico, composto. Ha il pathos contenuto dell’esattezza, in nome della quale la Jannuzzi osa addirittura infrangere una regola implicita di “Stampa e Regime”, pronunciando correttamente i termini inglesi. Ma soprattutto, la giornalista si segnala per gli impeccabili richiami a quella storia più o meno recente delle istituzioni che i giornali di cui dà conto troppo spesso dimenticano, e che lei padroneggia alla perfezione. E’ un aspetto bordiniano. Mese dopo mese, la rassegna della Jannuzzi si fa via via più personale senza perdere il suo tratto scrupoloso. Pur con tutte le differenze del caso, credo che si stia guadagnando sul campo l’eredità del suo grande direttore. Mi accorgo che provo già a imitarla.

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