I demoni dello zar Putin

Giulio Meotti

“Quando sentite Vladimir Putin citare Dostoevskij significa che sta per vendicarsi sull’occidente”. Intervista a Michel Eltchaninoff

C’era un uomo che aveva grandi progetti per la Russia. Aveva trascorso la sua giovinezza a San Pietroburgo, ma anche gli anni formativi a Dresda. Il suo rapporto con l’Europa era complicato, a dir poco, alcuni parlavano di un rapporto di amore-odio. È – avete indovinato – il presidente della Russia Vladimir Putin. Ma stiamo parlando anche di Fëdor Dostoevskij, che sull’Elba non si sentiva a suo agio come Putin – le donne troppo brutte, la città troppo squallida, i casinò troppo lontani – ma dal punto di vista del Cremlino, questo è ciò che conta di più al momento”. Così si apre un dossier della Süddeutsche Zeitung dedicato ai duecento anni dello scrittore russo.

   
Lenin disse di Dostoevskij: “Porcheria reazionaria. Una letteratura del genere non mi serve”. L’Unione sovietica regolò subito i conti con Dostoevskij: la sua tematica cristiana dagli esiti aperti, dai dubbi laceranti, così ricca di vertiginosi sentimenti di peccato e di amore, di perdono e di espiazione, era intollerabile come le professioni di fede antisocialiste del grande romanziere. L’Homo Sovieticus che Stalin voleva forgiare era agli antipodi dell’universo spirituale dostoevskiano e l’autore di “Delitto e castigo” fu relegato tra i “reazionari” condannati all’oblio: tra il 1935 e il 1955 è bandito da scuole e università; monografie fondamentali come gli studi di Bachtin (il teorico della polifonicità del romanzo dostoevskiano) restarono nel cassetto e Bachtin dovrà contentarsi di una cattedra di letteratura in una sperduta città della Mordovia, Sharansk. Alcuni romanzi, come “I Demoni”, “L’Idiota”, “I Fratelli Karamazov”, non vengono più stampati; lo stesso destino è riservato al “Diario di uno scrittore” (dove sono contenuti gli attacchi più duri ed espliciti al radicalismo rivoluzionario e ai suoi portavoce letterari); vengono proibite le “Memorie da una casa di morti”, perché l’ergastolo zarista (katorga) avrebbe potuto ricordare l’inferno del Gulag.

   
L’uomo che vorrebbe riportare la Federazione russa ai fasti sovietici ha invece portato Dostoevskij dentro al Cremlino. E così, la Russia oggi lo celebra con nuovi monumenti, dedicandogli stazioni della metropolitana, strade e piazze, organizzando mostre e spettacoli teatrali, concorsi di lettura e serate cinematografiche. A San Pietroburgo un autobus porta il ritratto di Dostoevskij. A Mosca Putin ha appena visitato un museo restaurato in un appartamento dove lo scrittore ha trascorso la sua infanzia. Da alcuni anni i romanzi di Dostoevskij sono stati adattati come serie tv. Dostoevskij è più vicino che mai, un interlocutore, un contemporaneo. 

   
Marguerite Souchon ha appena pubblicato “Il Dio di Dostoevskij”. Fu lì, nella prigione siberiana, che lo scrittore riscoprì il cristianesimo. Al suo ritorno a San Pietroburgo, sulla quarantina, Dostoevskij si rende conto che il socialismo della sua giovinezza è morto e l’ateismo diventa ai suoi occhi la più grande minaccia alla civiltà, “la fonte di mali nuovi e distruttivi in Russia”. E Vladimir Putin questa settimana lo cita in un’intervista a Rossiya-1. “Dostoevskij ha detto che ‘i nostri liberali sono lacchè disposti a pulire gli stivali di qualcuno’. Tuttavia, non è vero liberalismo”. Nelle settimane precedenti, al Valdai di Sochi, Putin aveva sferrato un micidiale  attacco culturale alla cultura occidentale. 

  
Michel Eltchaninoff, caporedattore di Philosophie Magazine, autore del libro “Inside the mind of Vladimir Putin” e che a gennaio in Francia pubblicherà “Lénine a marché sur la lune”, da anni studia la mentalità del presidente russo, oltre ad aver dedicato numerosi saggi a Dostoevskij. 

  
“Vladimir Putin, nel suo discorso al Valdai Club il 21 ottobre scorso, davanti a esperti della Russia di tutto il mondo, ha sostenuto senza ambiguità che l’occidente ha fallito e commesso errori dalla fine della Guerra fredda”, spiega al Foglio Eltchaninoff. “Ha considerato che la distanza storica di trent’anni dalla fine dell’Urss gli permetteva di trarre lezioni definitive, da qui il tono molto asseverativo che ha usato. Secondo lui, l’occidente ha semplicemente preso la strada sbagliata. In termini di politica internazionale, l’euforia dei vincitori della Guerra fredda, la loro sensazione di essere sull’Olimpo, è finita in una crudele disillusione. Vladimir Putin ha così elaborato le due guerre condotte dagli Stati Uniti fuori dai suoi confini. Due fallimenti, secondo lui, in Iraq, con la nascita di Daech, e soprattutto in Afghanistan, che l’esercito americano ha dovuto lasciar cadere di nuovo nelle mani dei talebani. In secondo luogo, sul piano economico e sociale, l’aumento delle disuguaglianze in occidente – anche se Vladimir Putin trascura di sottolineare che queste sono molto più evidenti nel suo paese – spiega le tensioni a cui stiamo assistendo: frustrazioni, manifestazioni di rabbia contro le misure sanitarie, manifestazioni di ‘estremismo’ (questo è il termine che ha permesso alla giustizia russa di vietare le attività del Fondo anti-corruzione di Alexei Navalny, assimilando il suo movimento agli islamisti radicali e all’ultradestra). Al contrario, Putin suggerisce che la Russia è in una situazione molto più stabile. In terzo luogo, ideologicamente, l’occidente ha, per Putin, tradito i suoi principi. Putin, riferendosi alla mancanza di cooperazione internazionale nella lotta contro la pandemia, ha dato la colpa all’egoismo degli stati occidentali. Ha persino esclamato: ‘Ma cosa è successo ai principi umanistici del pensiero politico occidentale? In realtà, ci rendiamo conto che non c’è niente, solo chiacchiere’. L’accusa di ipocrisia da parte dell’occidente è abituale nella bocca del presidente, che da decenni critica i ‘doppi standard’ occidentali. In fondo, secondo lui, le belle parole servono solo a nascondere i disegni del potere. E coglie l’occasione per riaffermare la posizione russa (e cinese) della supremazia della sovranità nazionale. L’ideologia della globalizzazione senza frontiere, secondo Putin, è morta con il Covid. Secondo lui, questa sconfitta dell’occidente ha  una base morale e spirituale”.

   

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Putin firma il registro dei visitatori nella casa-museo di Tolstoj a Jàsnaja Poljàna. “Per capire Putin, leggete Dostoevskij”, hanno detto Kissinger e l'ex capo della Nato in Europa Stavidris
     
A Sochi, Putin ha appena attaccato il woke e l’ha paragonato al leninismo. Un personaggio dostoevskijano idealista e cinico al tempo stesso? “Attaccando di petto l’ideologia woke, la rinascita della lotta contro la discriminazione razziale e di genere nei paesi occidentali, Vladimir Putin sta drammatizzando la lotta contro un occidente che crede sia diventato pazzo”, continua al Foglio Eltchaninoff. “In Russia, invece, i ‘valori tradizionali’ sono sanciti dalla nuova costituzione. Il presidente si affretta a criticare il desiderio dei paesi occidentali di stabilire ‘una discriminazione inversa della maggioranza nell’interesse delle minoranze’, ‘la richiesta di rifiutare nozioni fondamentali come una madre, un padre, una famiglia o anche la distinzione tra i sessi’. Affermando, come sempre, di ‘chiamare le cose con il loro nome’, il presidente russo sostiene che questo movimento di negazione del genere ‘è semplicemente al confine di un crimine contro l’umanità’. Questo tipo di indignazione non è affatto sorprendente dall’uomo che, all’epoca della sua offensiva conservatrice nel 2013, allo stesso Valdai Club, affermava sull’occidente: ‘Si sta perseguendo una politica che mette sullo stesso piano una famiglia con molti figli e una coppia dello stesso sesso, la fede in Dio e la fede in Satana. Gli eccessi del politicamente corretto stanno portando a prendere in seria considerazione la possibilità di permettere un partito il cui scopo è la propaganda pedofila’. La cosa più originale del suo discorso è che non si basa solo sulle sue letture e convinzioni personali o su quelle dei suoi concittadini, ma sull’esperienza storica della Russia. Sostiene che ciò che sta accadendo oggi in occidente con il movimento woke, la Russia sovietica era già passata negli anni Venti. E’ vero che dopo la guerra civile e il comunismo di guerra, dal 1918 al 1921, la Nuova politica economica, dando un po’ di respiro all’impresa privata e alla società, fu l’occasione per un’effervescenza culturale, artistica e sociale senza precedenti. Il rovesciamento della famiglia borghese era uno degli obiettivi dell’avanguardia. In alcuni circoli, la libertà sessuale era esaltata. Ma è una grande esagerazione confondere questo movimento di emancipazione con la cultura woke di oggi, che si concentra sui diritti delle minoranze etniche, sessuali o di genere. Bisogna anche sottolineare che è stato lo stalinismo più severo e criminale a chiudere questa parentesi incantata della storia sovietica. In breve, l’idea che la Russia abbia già vissuto il suo momento di risveglio – e ne sia uscita – è molto anacronistica”.

  
Putin gioca sullo scetticismo russo sulla occidentalizzazione dai tempi di Eltsin? “La maggioranza dei russi approvava piuttosto la politica di Putin negli anni Duemila, che consisteva nell’affermare l’autorità dello stato – nonostante la repressione di ogni forma di vita politica libera – purché fosse accompagnata, grazie all’aumento del prezzo delle materie prime esportate dalla Russia, da un aumento del tenore di vita. Vladimir Putin ha poi soffiato sulle braci del nazionalismo russo annettendo la Crimea nel 2014 e ponendosi come attore nella politica internazionale. Un vento di isteria nazionalista soffiò allora sul paese. Ma dopo aver promesso, per essere rieletto, ‘una Russia per il popolo’, e aver visto ben pochi risultati da una politica più sociale, i russi sono ora piuttosto disillusi. Non credono più alle osservazioni provocatorie  di Vladimir Putin, perché il tenore di vita sta scendendo. Il peggioramento della situazione sanitaria dovuto al Covid, che il paese sta vivendo attualmente, è dovuto alla riluttanza dei due terzi della popolazione a fidarsi del vaccino, nonostante sia stato presentato come una vittoria nazionale. In breve, la retorica antioccidentale di Putin sembra essere rivolta più ai paesi stranieri, che rimangono sedotti dal bad boy della politica internazionale, senza conoscere le realtà del paese – impoverimento, corruzione delle élite, giustizia agli ordini del popolo, annientamento delle libertà pubbliche”.

  
Da Dostoevskij a Solzenitsyn, Putin fa riferimento a questa tradizione conservatrice russa. Filosofi che hanno sostenuto che l’occidente razionalista e materialista stava corrompendo la purezza spirituale della Russia. “L’occidente ha esportato questo virus anticristiano in Russia”, ha scritto Ilyin. “A ottobre, Vladimir Putin ha riaffermato la sua dottrina del conservatorismo temperato, attingendo al ramo più antioccidentale del pensiero russo” continua Eltchaninoff. “Ha citato i nomi del filosofo emigrato e seguace di una democrazia dell’acclamazione, Ivan Ilyin, il pensatore eurasiatico Lev Goumilev, e Nikolai Berdiaev (ampiamente sovrainterpretato, persino tradito). Prende deliberatamente questa posizione anti-progressista. L’11 novembre, ha visitato il Museo Dostoevskij a Mosca nel bicentenario della sua nascita. Nel servizio del telegiornale del primo canale, solo due citazioni del romanziere sono state evidenziate. Il primo rimprovera gli europei, il secondo critica i ‘liberali’, cioè i democratici. Un consigliere del presidente fa notare che quest’ultimo legge molto ‘Il diario’ dello scrittore. Tuttavia, queste cronache, che sono spesso politiche, nazionalistiche e antioccidentali, rappresentano solo una parte dell’opera di Dostoevskij. Alla fine della sua vita, per esempio, il romanziere cercò di conciliare spirito russo e spirito europeo, sotto l’egida di Puškin. I suoi romanzi sono polifonici e (fortunatamente) molto più profondi di una semplice esaltazione dell’anima russa contro l’Europa decadente. Questa strumentalizzazione di un autore immenso come Dostoevskij mostra che il presidente russo utilizza solo una parte dell’immensa cultura russa per sviluppare la sua ideologia di vendetta contro l’occidente”.

 
Dopo aver spiegato che la Russia resta “un paese di spie e guardie carcerarie”, il celebre regista teatrale russo sulla Novaya Gazeta (il giornale che ha vinto l’ultimo Nobel per la Pace) Konstantin Bogomolov si è appena lanciato  in una lunga diatriba contro l’occidente. “Ci troviamo alla fine di un treno impazzito diretto in un inferno stile Hieronymus Bosch dove saremo accolti da diavoli multiculturali e di genere neutro. Tutto quello che dobbiamo fare è sganciare il carro, farci il segno della croce e iniziare a costruire un nuovo mondo. Per ricostruire la nostra buona vecchia Europa, l’Europa che abbiamo sognato, l’Europa che abbiamo perso. L’Europa dei sani di mente…”.


 In Unione Sovietica non c’era posto per tutto quel pessimismo dostoevskijano, la persecutoria lotta fra il bene e il male. Putin ne ha issato la bandiera davanti alla Cattedrale di San Basilio. 

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.