Domenico Gnoli, Treccia

Più sensibilità, meno tecnica: la “Treccia” di Gnoli, esercizio mimetico sublime

Francesco Bonami

Nell'opera del pittore convivono dettaglio e tutto, Aristotele e Confucio. Sarebbe piaciuto anche a Mao

Il libro di Richard Nisbett  “Il tao e Aristotele. Perché asiatici e occidentali pensano in modo diverso” (Rizzoli 2007) può essere molto utile per visitare la mostra di Domenico Gnoli alla Fondazione Prada a Milano. Fra i tanti esempi che Nisbett fa per dimostrare la differenza fra il modo di pensare di un occidentale e quello di un asiatico c’è quello del video della tigre nella giungla. Un occidentale si concentra sulla tigre mentre un asiatico guarda tutto l’insieme, tigre e giungla. Nisbett non ci dice se ci sono più asiatici o occidentali divorati dalle tigri, non volendo dare un giudizio su quale sia il modo migliore per affrontare la realtà.

I dipinti di Domenico Gnoli sono una sfida alle teorie di Nisbett perché davanti a uno di loro spettatori occidentali e asiatici possono trovarsi d’accordo. Infatti la pittura di Gnoli è al tempo stesso dettaglio e tutto. Gnoli è sfortunatamente morto troppo presto per essere tentato di dipingere tigri come Ligabue. Una delle opere della mostra che più di altre dimostrano come Gnoli fosse artistotelico e confuciano al tempo stesso è la treccia di capelli castani (“Treccia”, 1969. Acrilico e sabbia su tela, 180 x 150 cm). In questo dipinto complicatissimo e semplicissimo in un colpo solo i dettagli dei capelli si trasformano in un universo sconfinato, paesaggio e materia, volume e spazio. Non è questione di saper dipingere bene ma al contrario di riuscire a dimenticare la tecnica per inoltrarsi dentro l’immagine come un pidocchio, scoprendo che quello che appare come un dettaglio è anche un tutto. Il capello diventa un ingrediente ora solido ora liquido ora cremoso.

Non sempre questo artista riesce a liberarsi dalla propria occidentalità, attratto appunto dalla sensualità del dettaglio, il bottone, la cerniera lampo, la ciocca di capelli. Opere quasi sempre eccezionali ma tuttavia limitate dall’universo culturale nel quale l’artista viveva. La Cina ai suoi tempi non era per niente vicina e laggiù il suo stile sarebbe stato visto forse come una forma di surrealismo aristocratico e controrivoluzionario. Ma un quadro come la treccia sarebbe piaciuto anche a Mao perché fuori dai limiti del tempo e libero da qualsiasi giudizio sociale o politico. Non corrotta astrazione né sdolcinata figurazione. Realismo astratto, se vogliamo concederci una contraddizione in termini.

L’immagine raggiunge questa rara dimensione dividendosi in tre spazi sempre creati dallo stesso soggetto: i capelli. Prima scendono giù piatti come fossero un asse di legno. Poi diventano due ali o onde che s’incontrano e si abbracciano. Infine iniziano a intrecciarsi diventando la protagonista del dipinto, la treccia. Il tutto potrebbe essere di cioccolata, opera di altissima pasticceria. Un quadro che si assume il rischio di sembrare decorativo senza diventarlo mai. Così come l’artista sfida la possibile critica di essere definito un semplice acconciatore di pittura sconfiggendola – in questo sì è molto asiatico – come un campione di arti marziali. Non pone resistenza all’azione del dipingere per metterla al tappeto e farla diventare qualche cosa di altro. Sfruttando la natura universale e minimalista del capello, che altrimenti rischia di essere pubblicità per Aldo Coppola, trasformandola in una icona mistica. L’Assunzione della Treccia al Cielo. Giungla e tigre al tempo stesso. Esercizio mimetico puro. Perché dentro un solo colore, il marrone, si nascondono il corpo umano, la vanità dell’individuo, l’astrazione dei dettagli che gli appartengono e che tutti insieme gli danno un’identità, per finire con la banalità del capello che tuttavia è da sempre oggetto di devozione e cura totale, senza il quale l’essere umano si sente nudo. Gnoli trasformando la pi-gnoleria in allucinazione ci regala fra i suoi tanti lavori un capolavoro fuori dal tempo, dalla storia e da qualsiasi geografia mentale che sia. Trasformando il pennello in pettine stabilisce e ci ricorda che la pittura, e l’arte più in generale, non è una questione di tecnica esteriore ma di sensibilità interiore.

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