Ulisse e Diomede sottraggono il Palladio. Oinochoe apula da Reggio Calabria (360-350 a.C.). Museo del Louvre 

sette talismani

Il mito dei simboli dell'Impero, reliquie arcane che rendevano unica Roma. Un libro

Giulio Silvano

Abituati a contrapporre i pratici e ingegnosi romani ai più spirituali e indolenti greci, ci dimentichiamo quanto sia stata invece importante per Roma la religione. Tanto che la statura secolare dell’Impero si basava sul preservare sette oggetti e simboli sacri all’interno delle mura della città

In un’epoca in cui si è perso il Sacro, i candidati a sindaco di Roma dovrebbero forse leggersi il nuovo testo di Mino Gabriele, “I sette talismani dell’Impero”, appena pubblicato nella recente collana Imago di Adelphi. Troppo spesso l’immaginario dell’antichità nei discorsi elettorali sembra ispirato a fumosi ricordi ginnasiali, agli albi di Asterix & Obelix e ai peplum con Mark Forest. Abituati come siamo a contrapporre i pratici e ingegnosi romani – eccellenti costruttori, strateghi e legislatori – ai più spirituali e indolenti greci – filosofi, teatranti e sciamani – ci dimentichiamo quanto sia stata invece importante per Roma la religione, diffusa in ogni pratica casalinga, pubblica e politica, “un cosmo sacralizzato in ogni sua parte”. Tanto che la statura secolare dell’Impero, “la cui koiné nutrirà e forgerà l’intero mondo occidentale e non solo”, si basava sul preservare sette oggetti e simboli sacri all’interno delle mura della città che ne assicuravano l’esistenza. Sette talismani, distribuiti in zone diverse dell’Urbe, la cui caduta in mano nemica significava il crollo di una civiltà.

 

Questi pignora (pegno, garanzia), gelosamente custoditi, erano doni del cielo, testimonianze divine di predilezione rispetto ad altre città, reliquie arcane di cui Mino Gabriele segue con dovizia accademica i percorsi, camminando in bilico tra storia e leggenda, nei testi della letteratura greco-latina e non solo, scavando nei miti e analizzando le iconografie nelle vestigia archeologiche. Uno di questi, il Palladio, il pignus più venerato, rappresentazione di Atena, “rendeva inespugnabili le mura della città che lo custodiva”. Effige di legno posta in un palazzo purificato con ancelle e incensi, era all’origine della fondazione di Troia e della sua fecondità militare. L’espugnazione di Ilio da parte dei greci, su consiglio dell’indovino Calcante, fu possibile proprio perché Ulisse e/o Diomede, con la loro scaltrezza, portarono via il Palladio dalla città col celebre trucco del cavallo. Senza il talismano a proteggerla, Troia finisce. Il Palladio arriverà a Roma, forse portato da Enea, per finire nel Tempio di Vesta, nel Foro, protettissimo, a dare lustro all’Impero. Tornerà poi a casa quando Costantino la porterà segretamente con sé sul Bosforo, a Costantinopoli, “quale pignus aeternitatis, garanzia della continuità-legittimazione dell’imperium dalla ‘prima’ alla ‘seconda’ Roma”.

   

In queste storie risulta l’altra grande forza e garanzia della solidità dell’Impero: la capacità non solo di tollerare le religioni dei territori conquistati, senza imposizioni, proselitismo o obbedienza  dogmatica, ma l’aspirazione a inglobare nel proprio pantheon le divinità degli altri popoli, allargando in qualche modo la propria protezione, accumulando energia sacra, anche attraverso i talismani sottratti ad altre città, come appunto il Palladio.

 

Oltre i sette qui ampiamente descritti, ce n’erano probabilmente molti altri, “più talismani, opportunamente occultati ai nemici, garantivano una maggiore protezione, in quanto diversificata secondo un articolato scudo apotropaico”. Si parla di sette per “concordanza simbolica”. Per Cicerone “nodo di tutte le cose”, il 7 “numero-fulcro, –  aggiunge Gabriele, dedicandoci un capitolo – [è] il legame che tiene unito l’universo e che sta alla radice del tutto. E’ il ‘dulcis sonus’ dell’armonia cosmica, della rotazione delle sfere, dottrina già pitagorica e poi platonica”. Sette re, sette colli, sette anni di Veltroni in Campidoglio.

 

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