Elaborazione grafica di Francesco Stati 

Senza più Maestri, mai come ora siamo condannati a una solitudine epocale

Marco Archetti

“Il miglior tempo”, nuovo romanzo di Alberto Rollo. Un giovane e un anziano, entrambi nel mondo della medicina, affrontano la vita mettendo alla prova le loro cognizioni

Musicalmente parlando, sarebbe una Fuga. Stiamo parlando de “Il miglior tempo" (Einaudi, 400 pp., 19,50 euro), il nuovo romanzo di Alberto Rollo. Avevamo amato, e raccontato, la sua educazione milanese, pubblicata nel 2016 da Manni. Poi un secondo passaggio, di natura poetica, L’ultimo turno di guardia, sempre per Manni. Adesso ritroviamo l’autore – critico, traduttore, uomo di editoria e maieuta per un’intera generazione di scrittori – a dipanare due storie in una, due storie incrociate anche quando non si incrociano, due vuoti diversi che si guardano. Il romanzo racconta del giovane Cantor, ventenne, infermiere, e del vecchio Romagnoli, pediatra in pensione, e di come la vita, la materia che fronteggiano – il passato, il futuro e, tra l’uno e l’altro, il presente, cioè il senso dello stare, più che dell’esserci (dello stare nel proprio Tempo) –, metta sempre alla prova le loro cognizioni. Ma cosa sanno davvero? E poi, cosa cercano? 


Cantor non sa aspettare e per Romagnoli è finito il tempo di agire. Le qualità del giovane Cantor sono quasi dostoevskiane, tanto radicale è la costante, testarda e martellante interrogazione cui sottopone la vita. Cantor è uno con la nevrosi delle domande, che di sé, spaesato quando non trova il bandolo, dice di essere uno che fa domande elementari e cerca sempre risposte elementari, “il che mi complica la vita”. Figura romantica, un po’ Idiota e un po’ santo di Tiberiade, narciso, irrequieto e tormentato, ha il furore di una giovinezza affamata: non lo si può definire tout court un incontentabile, ma è uno che cerca una possibilità di compaginazione di sé nei destini generali, in cui il punto di equilibrio non sia accontentarsi (o difendersi col coltello tra i denti, come a un certo punto gli dice la madre). Ha un carisma involontario e un’inquietudine patologica che lo porta a mollare tutti, trascinando se stesso qua e là alla ricerca di Maestri che – sospetta, patendone – non ci sono. Ma li ascolterebbe?

Dal canto suo, il professor Romagnoli, pediatra incline all’immaginazione, vedovo recente, figlio del proprio tempo – “sovraccarico di tempo”, si dichiara – e appassionato di Robert Schumann (ma è molto più che una passione, è il suo romanzo, è parte della sua idea politica, della sua idea di Europa e anche d’amore; quell’Europa che, di concerto in concerto, in altre stagioni della vita, ha girato con l’amata Lena, che adesso è morta ma che lui continua a vedere) è alle prese coi “paramenti del vuoto” mentre cerca di reimparare la vita e di non cedere agli “usignoli del bel tempo passato” (ancora Schumann), di accogliere quel che ne resta e anche – il che ci riporta al Rollo di due pubblicazioni or sono – di dargli un senso attraverso i luoghi. Perché è un uomo di luoghi, Romagnoli; visitati, ricordati, emblematici. E lo è questo romanzo. “Questa è la città in cui crediamo di vivere nel migliore dei mondi possibili”, dice a un certo punto. E l’amico Sabir, che si occupa di rifugiati siriani: “Questa è la città in cui abbiamo cominciato a lavorare, e sarà bene non smettere”. 

 

“Vengo anch’io da quelle speranze, e le ho viste rivoltarsi contro di noi”, ci confida Romagnoli. E intanto, capitolo dopo capitolo, scatta la foto al nostro tempo, alla pasta di cui è fatto e siamo fatti, e alle umane fatiche, al significato cui non si può rinunciare, all’individuo che è tale solo dentro un’identità che partecipi di un riconoscimento più ampio, alla solitudine epocale cui l’assenza di Maestri ci condanna. E snocciola le nostre ossessioni: quella di essere famiglia così come di non esserlo; quella di essere nemici e di voler capire. “Ma c’è solo vedere”, ci ricorda l’autore, e aggiunge: “Il miglior tempo non esiste. Ma esistono le sette camicie che ogni giorno dobbiamo sudare”. Perché il tempo muto – il tempo impalpabile – è il tempo di sempre. E chissà, la California. Ma intanto siamo tutti, ogni giorno, la medesima attesa: di coincidere con noi stessi. E che la vita, prima o poi, ci sgomitoli un segreto.

Di più su questi argomenti: