Platone e Aristotele, formella di Luca della Robbia (Wikipedia) 

Come leggere, con qualche cautela, gli articoli degli amici cari

Sergio Belardinelli

La firma di una persona conosciuta e stimata suscita in noi un moto di curiosità. Che cosa avrà scritto oggi? Ma dobbiamo evitare la desolante dialettica che domina sui social: anche una persona disgustosa può avere ragione

Tra i motivi per cui scriviamo su un giornale c’è senz’altro anche un innocente e spesso inconfessato bisogno di riconoscimento. Come diceva Bertrand Russell, siamo così presuntuosi che vorremmo essere applauditi da tutto l’universo, ma siamo così vanitosi che bastano due adulatori a renderci felici. E così ogni mattina che il giornale pubblica un nostro pezzo ci aspettiamo di ricevere su Whatsapp le reazioni dei nostri quattro, cinque lettori, per lo più amici, che difficilmente si scomoderebbero per dirti che non l’hanno apprezzato. È anche presumibile che il pubblico dei lettori non vada oltre questa ristrettissima cerchia di amici, ma la questione riguarda eventualmente il direttore, non certo l’autore del pezzo, il quale, contento degli apprezzamenti ricevuti, tacita in questo modo persino il desiderio di essere letto da improbabili moltitudini. 

Non intendo entrare ovviamente nella variegata e spesso contorta psicologia degli intellettuali che leggono e scrivono sui giornali. Mi interessa invece dire qualcosa sul modo in cui solitamente leggiamo gli articoli dei nostri amici. La cosa potrebbe avere infatti una certa importanza simbolica, considerato che gli articoli degli altri, diciamo pure di coloro che non ci piacciono, li leggiamo sempre di meno e quando lo facciamo raramente siamo in grado di trarne beneficio. 

La firma di un nostro amico su un qualsiasi articolo suscita in noi anzitutto un moto di curiosità. Che cosa avrà scritto oggi? Non vediamo l’ora di leggerlo, di condividerlo, di entrare in ideale conversazione con lui, quale che sia il tema che affronta. Siamo inoltre fiduciosi che impareremo qualcosa. La differenza di vedute conta relativamente, anzi, è spesso un motivo di apprezzamento in più: non sono d’accordo, ma è proprio bravo. La bolla di benevolenza dentro la quale facciamo la nostra lettura funziona insomma come una sorta di garanzia preventiva del fatto che sarà una lettura piacevole e fruttuosa. E quand’anche non lo fosse, pazienza, non possiamo mica pretendere che uno abbia sempre qualcosa di interessante da dire.

Premesso che tanta indulgenza si giustifica in genere in base all’esperienza e al valore che il nostro amico ci ha dimostrato negli anni, altrimenti sarebbe semplicemente una forma di stupida cecità, da quanto sto dicendo si possono trarre comunque un paio di utili conseguenze anche se piuttosto scontate: la prima è che occorre fare molta attenzione affinché l’amicizia non faccia troppo velo in ordine al valore che attribuiamo a ciò che fanno o scrivono i nostri amici; la seconda, più generale, è che amicizia, antipatia o inimicizia non dovrebbero mai diventare un criterio per distinguere ciò che consideriamo intelligente e ciò che consideriamo stupido. Mi rendo conto che è difficile imparare qualcosa da chi detestiamo. Il fatto che consideriamo qualcuno un disonesto, un fanatico o un presuntuoso rappresenta spesso (a volte anche comprensibilmente) una vera e propria barriera che ci impedisce di apprezzare la qualità delle sue idee e delle sue argomentazioni. Eppure, se vogliamo evitare la desolante dialettica amico/nemico che domina per lo più sui social, anche una persona disgustosa può avere ragione.

A pensarci bene, sta qui il senso più banale e più profondo del famoso detto amicus Plato sed magis amica veritas”. Troppo facile riconoscere che una persona cara possa aver torto. Non a caso, quando accade, non ci curiamo neanche di farglielo notare o, se lo facciamo, ci guardiamo bene dall’infierire, come faremmo invece con il “nemico”. D’altra parte non possiamo mica pretendere di diventare tutti amici di tutti. Sarebbe addirittura una pretesa sciocca. Tuttavia, specialmente quando si tratta delle nostre attività intellettuali, non sarebbe male se facessimo almeno un po’ lo sforzo di includere nel nostro orizzonte anche coloro che per una ragione o per l’altra ci infastidiscono. Ne verrebbe fuori una conversazione certamente più vivace, più divertente e più civile. Ritornando alla battuta di Russell da cui siamo partiti, potremmo anche dire che, dovendo scegliere, è forse meglio rischiare un po’ assecondando la nostra presunzione che accontentarci di assecondare semplicemente la nostra vanità.

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