Uno degli allestimenti del Centro di documentazione per gli sfollati, gli espulsi e la riconciliazione

Un museo per ricordare i tedeschi espulsi dall'est e riconciliare la Germania

Daniel Mosseri

La cancelliera Merkel ha inaugurato il Centro di documentazione per gli sfollati, gli espulsi e la riconciliazione: cinquemila metri quadri nel centro di Berlino dedicati ai 14 milioni di connazionali sradicati dopo il 1945

Per inaugurare il Centro di documentazione per gli sfollati, gli espulsi e la riconciliazione (Dokumentationszentrum Flucht, Vertreibung, Versöhnung - Dfvv), la cancelliera tedesca Angela Merkel ha detto che si trattava di un gesto  necessario per ricordare milioni di tedeschi espulsi dall’Europa orientale a partire dal 1944 senza mai levare lo sguardo “dal principio di causa ed effetto legato al contesto storico”. Cinquemila metri quadri nel centro di Berlino dedicati ai 14 milioni di tedeschi sradicati dopo il 1945 senza dimenticare i boat people vietnamiti o l’implosione della Jugoslavia nel 1990. All’inaugurazione del Dfvv, ha ricordato la cancelliera, si è arrivati dopo “una discussione lunga e intensa in Germania e negli altri paesi europei” ma il suo varo “colma una lacuna nel modo in cui i tedeschi affrontano la propria storia”.

Nei nuovi spazi inaugurati assieme agli ambasciatori polacco, ceco e ungherese in Germania, si racconta una storia poco nota, dove i tedeschi pagano per le responsabilità del proprio paese. Stiamo parlando dei civili che abitavano la Slesia e poi la Prussia, la Pomerania e il Brandeburgo orientali, regioni storiche dell’Impero tedesco (1878-1918), passate in parte all’Unione sovietica e in gran parte alla Polonia con la sconfitta del Terzo Reich nel 1945. Accanto a loro anche milioni di tedeschi “etnici” (di lingua e cultura tedesche ma privi di passaporto) furono cacciati da una regione che dalla Repubblica ceca arriva fino alla Romania passando dai Balcani. 

Parlando con il Foglio, la direttrice del Dfvv Gundula Bavendamm ha spiegato perché la Germania ha impiegato 75 anni per ricordare una migrazione epocale avvenuta nel giro di pochi anni e nella quale persero la vita circa un milione di persone. “Le società richiedono tempi lunghi per elaborare i passaggi dolorosi: la Germania non fa eccezione. Tanto più che il primo nostro dovere è stato commemorare lo sterminio degli ebrei”. Da cui l’inaugurazione a Berlino della Topografia del terrore nel 1987 e quella del Memoriale della Shoah nel 2005. Anche l’uscita di scena di alcuni personaggi impegnati in un pericoloso esercizio di revisionismo storico, come l’ex presidente dell’associazione degli espulsi Erika Steinbach, ha facilitato l’apertura del Dfvv. Oggi il centro apre al  pubblico e la sfida è evitare ogni strumentalizzazione politica. “Ma le nostre basi sono gli studi storici: ogni fraintendimento è impossibile perché il riferimento alle responsabilità dei tedeschi non viene mai meno”.

 

L’esposizione del Dfvv si apre con la deportazione di milioni di ebrei europei a opera dei nazisti verso i campi di sterminio a est e si chiude con tre ondate umane da est verso la Germania. La prima con la fuga spontanea e disordinata di centinaia di migliaia di tedeschi fra la fine del 1944 a la primavera del 1945 sotto la progressiva avanzata dell’Armata rossa; la seconda con la nascita nel 1945 di governi socialisti in Polonia e Cecoslovacchia che decretarono l’espulsione dei tedeschi; e poi la grande espulsione organizzata di milioni di loro concittadini dopo la Conferenza di Potsdam (agosto 1945) fino al 1949 verso le quattro zone di  occupazione militare in cui era divisa la Germania, “a esclusione di quella francese che all’inizio rifiutò di accogliere gli espulsi”.

Con la nascita delle due Germanie cominciò l’integrazione dei nuovi arrivati. Nella dittatura socialista legata a doppio filo a Mosca, spiega Bavendamm, i tedeschi dell’est erano assimilati in un sistema che non riconosceva loro alcuno status particolare. “La nuova frontiera sull’Oder-Neisse era accettata dal governo già dal 1950 e la commemorazione dell’espulsione era riservata all’ambito privato”. A ovest le cose andarono diversamente. In un paese raso al suolo, senza cibo o infrastrutture l’integrazione di otto milioni di concittadini non si fece senza tensioni sociali. “Ma gli espulsi erano organizzati secondo la regione di origine, federati a livello nazionale e per un breve periodo avevano anche un partito politico: erano comunque otto milioni di elettori”. La loro integrazione si può ritenere conclusa negli anni ’70, grazie al miracolo economico tedesco (Wunderwirtschaft), “al quale tanti espulsi dettero un contributo fondamentale”. Nel nome del centro si ricorda anche il tema della riconciliazione, “che per noi – conclude Bavendamm – si sviluppa su tre livelli: con la storia tedesca, con i nostri vicini e con chi ha subìto il trauma dello sradicamento”.

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