“ll dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba”, un film del 1964 diretto da Stanley Kubrick (LaPresse) 

il foglio del weekend

Memorie di Guerra fredda

Francesco Cundari

Il mondo, e l’Italia, continuano a sentire la mancanza di un’epoca in cui “le idee contavano” (anche per le ragioni sbagliate)

Mercoledì 16 giugno 2021, a oltre trent’anni da piazza Tienanmen e dalla caduta del Muro di Berlino, in risposta alle dure critiche venute dal vertice tra Stati Uniti e Unione europea, la Cina ha parlato di “mentalità da Guerra fredda”. Lo stesso giorno, al termine dell’incontro con il leader russo, Vladimir Putin, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha dichiarato in conferenza stampa che “un’altra Guerra fredda non sarebbe nell’interesse di nessuno”. 


E insomma, magari non sarà nell’interesse di nessuno, ma certo è nei pensieri di tutti. Specialmente in Italia, paese che dalla Guerra fredda è stato modellato (politicamente, istituzionalmente, culturalmente) e che infatti, finita la Guerra fredda, è sprofondato in una “transizione” (politica, istituzionale, culturale) di cui si discute ogni giorno, da trent’anni, senza approdare mai da nessuna parte. 

 
In questi giorni, in particolare, di Guerra fredda si è tornati a parlare quando, tra un G7 e un vertice Nato in cui Biden faceva appello alla solidarietà atlantica per fronteggiare la sfida globale rappresentata da Russia e Cina, Beppe Grillo e lo stesso ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, erano attesi dall’ambasciatore cinese (Conte ha poi dato buca, all’ultimo minuto, adducendo motivi personali). 

 
Figurarsi poi quando la tv cinese ha trasmesso un’intervista densa di impegnativi riconoscimenti al regime di Pechino da parte di Massimo D’Alema. Sebbene qui gli schemi della Guerra fredda potrebbero valere a sostegno di due giudizi diametralmente opposti, e portare a definire l’intervento come normalissimo, da parte di un ex dirigente del Pci (anche se non è detto, perché dai tempi delle famose “divergenze tra il compagno Togliatti e noi”, un classico della Guerra fredda opera del presidente Mao, i cinesi in Italia sono sempre andati più d’accordo con i gruppetti estremisti), oppure come assai sorprendente, da parte del presidente del Consiglio che nel 1998 aveva schierato l’Italia al fianco degli Stati Uniti nella guerra in Kosovo, compiendo uno strappo assai significativo con la tradizione pacifista dei comunisti italiani.


Per chi negli anni Ottanta non era né un dirigente del Pci né un generale della Nato, in ogni caso, la Guerra fredda è arrivata anzitutto attraverso il cinema. E’ stata “Top Gun” e soprattutto “Rocky IV”, con il cattivissimo pugile russo – pardon, sovietico – che dice a Sylvester Stallone: “Io ti spiezzo in due” (oggi probabilmente la battuta sarebbe stata cancellata alla prima revisione della sceneggiatura per razzismo antirusso). E’ stata un modo di pensare, un modo di inquadrare il mondo e di leggerne gli avvenimenti. Così da avere prontamente a disposizione, a seconda della parte in cui ci si riconosceva, un’opinione sempre pronta e articolata su quello che accadeva in Nicaragua non meno che in Polonia, nel golfo del Tonchino o nel canale di Suez. 


Da allora, soprattutto tra gli intellettuali, il rimpianto per i bei tempi della Guerra fredda, in cui era tutto così chiaro, è diventato un luogo comune, probabilmente dettato anche dalla mancanza di più solidi appigli per le proprie conversazioni geopolitiche.


Forse però anche quell’epoca, in realtà, era meno ordinata, stabile e lineare di come ci pare di ricordarla, contrapponendola alla caotica e imprevedibile velocità dei tempi attuali: del resto, quali tempi non sono apparsi così ai propri contemporanei? Nei giorni della crisi dei missili a Cuba, in cui pareva che il mondo fosse sull’orlo della catastrofe nucleare, una guerra che ragionevolmente non avrebbe lasciato forma di vita sulla terra, forse quei tempi non sembravano poi a chi li viveva tanto semplici, prevedibili e razionali.


Questo almeno è quel che viene da pensare leggendo il libro di un brillante storico delle idee, Louis Menand, uscito di recente negli Stati Uniti (“The free world – art and thought in the Cold war”), che nel lettore di oggi – nonostante il racconto si fermi ai tempi della guerra nel Vietnam – suscita istintivamente alcuni paralleli impliciti con la stretta attualità, e fa molto riflettere, in particolare sul rapporto tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Cioè noi. 


“Nel 1945 – scrive Menand – c’era un diffuso scetticismo, persino tra gli americani, sul valore e la raffinatezza dell’arte e delle idee americane, e un diffuso rispetto per moventi e intenzioni del governo degli Stati Uniti. Dopo il 1965 quegli atteggiamenti erano rovesciati. Gli Stati Uniti avevano perso credibilità politica, ma erano passati dalla periferia al centro della vita artistica e culturale internazionale”.


Era un tempo in cui la minaccia totalitaria era, specialmente in America, il principale se non unico tema capace di unire persone che altrimenti avrebbero avuto pochissimo in comune, a partire dalla domanda: potrebbe accadere anche qui? Perché era un tempo in cui, molto più che adesso, le persone si guardavano intorno. E si ponevano le domande giuste.


Oggi ci guardiamo meno intorno e soprattutto ci chiediamo meno spesso se potrebbe accadere anche qui, eppure quel che succede entro gli stessi confini dell’Unione europea, in paesi come Ungheria e Polonia, apertamente elogiati in Italia dai leader politici attualmente in cima ai sondaggi, dovrebbe suscitare qualche domanda anche in noi. 


Forse anche per questo la lettura del libro di Menand ha persino qualcosa di terapeutico, con l’intreccio di mille piccole biografie di politici, intellettuali e artisti di tutto il mondo, attraverso 18 capitoli che sono altrettante sezioni verticali nella complessa trama della Guerra fredda. Da George Kennan, il teorico del containment, a George Orwell, il primo scrittore a usare l’espressione “Guerra fredda”, tutti come acciuffati al volo nel momento esatto in cui le loro vicende personali s’intrecciano, spesso nei modi più strani, alla storia del mondo. 


Come a proposito di Jackson Pollock, di cui si dice tra l’altro che verosimilmente era meno sfrenato di come vuole la leggenda, che non fece mai tagliare gli angoli del suo capolavoro, “Mural”, per adattarlo alle misure della parete, e non pisciò nemmeno nel caminetto di Peggy Guggenheim (e se lo fece comunque di certo non davanti a tutti gli invitati del party organizzato in suo onore), ma fu molto influenzato dai muralisti messicani e in particolare da David Siqueiros (il quale, per chi non lo sapesse, informa una nota che da buon comunista, nel maggio 1940, nel suo paese avrebbe condotto un fallito attentato contro Trotsky, pochi mesi prima di quello, riuscito, di Ramón Mercader). 


Quanto a Peggy Guggenheim – che ricevette una parte di eredità già ventun anni, nel 1919, perché il padre morì sul Titanic – la questione è semplice: “A un certo punto, mentre il suo matrimonio andava a rotoli, decise che voleva essere protettrice di qualcosa, e scelse l’arte contemporanea”. E così nel 1939 se ne andò a comprare opere a Parigi, ed essendo, a differenza di praticamente chiunque altro, inconsapevole della minaccia nazista, ottenne ottimi prezzi. “Il giorno in cui Hitler entrava in Norvegia, io entravo da Leger e  compravo un meraviglioso dipinto del 1919 per mille dollari”, scriverà nelle sue memorie, osservando divertita come l’altro “non riuscì mai ad accettare il fatto che potessi comprare quadri in un giorno simile”.


Una delle ragioni per cui ha scritto questo libro, ha spiegato l’autore, è che si tratta del tempo in cui è cresciuto. Figlio di genitori interessati perlopiù alla politica, ma che amavano tenersi al corrente di quel che succedeva nel mondo dell’arte e della letteratura, in questo modo ha unito i puntini e riempito gli spazi bianchi all’interno di quella ridda di nomi (cose e città) che aveva sentito sin da ragazzo, sulla bocca dei genitori, senza capire bene chi fossero e perché fossero importanti. Dunque un modo anche di studiare se stessi e la propria formazione. 


La suggestiva descrizione, infatti, mi ha ricordato di quando in quinta elementare, dunque intorno al 1988, preparai una ricerca sull’Unione sovietica. Ero andato a fare i compiti dai nonni, avevo aperto il sussidiario e avevo cominciato a leggere: “Urss – Unione delle repubbliche socialiste sovietiche”. 


Ricordo che mi fermai di colpo, alzai gli occhi e domandai costernato: “Ma come, non erano comunisti?”. Perché allora, per un bambino italiano degli anni Ottanta, la parola “socialista” non evocava nemmeno per un istante il concetto di progenitore, fratello, cugino o compagno dei “comunisti”. In Italia, ai tempi in cui il segretario del Psi era Bettino Craxi e il segretario del Pci Achille Occhetto, per un bambino di dieci anni che ascoltava i discorsi dei grandi e cercava di orientarsi come poteva, “socialista” significava proprio il contrario di “comunista”. E dunque trovarsi quella parola proprio lì, nella stessa definizione di Unione sovietica, il paese di Ivan Drago, quello che gli americani – e senza dubbio anche i socialisti – li voleva spiezzare in due, era piuttosto disorientante. 


Immagino che se adesso quel bambino fosse qui, e potesse replicare con la sfrontatezza di allora agli sberleffi del me stesso di oggi, ci metterebbe pochissimo a spiegarmi che la sua posizione, ancorché discutibile da un punto di vista aridamente nozionistico, era perfettamente coerente con la ferrea e implacabile logica binaria della guerra fredda: o di qua o di là. E in Italia i socialisti di Craxi stavano senz’ombra di dubbio di là: cioè al governo con la Dc di Giulio Andreotti, nella stessa squadra degli americani e della Cia. Di qua c’era il Pci, che infatti stava all’opposizione, nella squadra dell’Unione sovietica. E di Ivan Drago. 


Intendiamoci, non è che io parteggiassi per Ivan Drago. Ammesso sia mai esistito un bambino così coerentemente marxista-leninista da tifare davvero per Ivan Drago, ovviamente io facevo il tifo per Rocky. Del resto, come insegna il libro di Menand, se persino Jean-Paul Sartre adorava il cinema americano ed era un fan sfegatato di Gary Cooper, che esaltava come uno che “pensava poco, parlava poco e faceva sempre la cosa giusta” – e non vi pare questa una perfetta definizione di Sylvester Stallone? – embè, volete che io, che non ero nemmeno un filosofo esistenzialista, a otto o dieci anni non facessi il tifo per Rocky?
Forse una delle ragioni per cui, a trent’anni di distanza dalla fine del comunismo, continuiamo a parlare tanto di Guerra fredda, a pensarci bene, ha più a che fare con la cultura che con la politica. Perché la caratteristica saliente di quell’epoca, specialmente se paragonata all’attuale, stava proprio lì. Come scrive Menand, al di là del pur importantissimo sviluppo delle università, dell’editoria, dell’industria della musica e del mondo dell’arte, di pari passo con lo sviluppo di nuove tecnologie di riproduzione e distribuzione, l’aspetto più sorprendente di quel tempo riguarda il pubblico, il fatto che tutto questo alla gente importava. “Le idee contavano. La pittura contava. Il cinema contava. La poesia contava. Il modo in cui le persone giudicavano e interpretavano quadri, film e poesie contava”. 
Prima che vi mettiate a piangere in preda alla nostalgia del bel tempo che fu, chiariamo una cosa, che proprio dal libro emerge, ripetutamente, in modo lampante. Ed è il peso immenso – nella storia della cultura – degli equivoci, degli errori di traduzione, delle ambizioni e delle gelosie, delle relazioni e delle idiosincrasie personali. E forse soprattutto del caso.


Insomma, era un tempo in cui le idee contavano così tanto, che una rivista poteva tenersi un articolo anche nove mesi prima di pubblicarlo, continuando a rivederne e discuterne ossessivamente forma e sostanza (oggi, almeno da queste parti, è tanto se in nove mesi ci accorgiamo degli errori di ortografia). Il saggio del critico Harold Rosenberg, per esempio, che avrebbe dovuto uscire su Les Temps Modernes, a suo tempo anticipato a Simone de Beauvoir come un attacco frontale all’espressionismo astratto in nome dell’arte impegnata (alla Sartre), complice anche un bisticcio con Sartre su un presunto plagio, sarebbe uscito su Art News, largamente riscritto dall’autore insieme con il direttore Tom Hess. Un editing talmente radicale da rovesciarne l’intera argomentazione, trasformando quindi le critiche in elogi, e l’articolo che avrebbe dovuto stroncarla (cui dobbiamo la definizione di “Action painting”) in un manifesto dell’arte americana di avanguardia. 


Perché l’arte contava, il modo in cui le persone giudicavano e interpretavano l’arte contava, ma contava pure, e non poco, anche tra gli intellettuali più illuminati, l’antica e intramontabile arte di arrangiarsi.

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