L'America in trasformazione vista dal suo cuore artistico, Minneapolis

La mostra del Walker Art Center a Palazzo Strozzi. Intervista

Maurizio Crippa

"Tutti hanno questa idea di una città dimenticata da Dio. Invece è la quindicesima area metropolitana degli Stati Uniti, la capitale del flour market e delle multinazionali del food legate al grano e alle farine. Città ricca, ovviamente anche conflittuale. Molto liberal nei suoi quartieri centrali, molto conservatrice attorno e nei suburbs”. Lo dice uno che Minneapolis la conosce bene, Vincenzo De Bellis: che ci vive dal 2016, da quando è curatore – e direttore associato per i Programmi e le Arti visuali – del Walker Art Center, uno dei “big five” dell’arte contemporanea americana. Tutti (quasi) si sono fatti l’idea che Minneapolis sia una città di violenza e guerra razziale, il buco nero in cui un anno fa George Floyd è morto soffocato dal ginocchio di un poliziotto bianco. Il luogo in cui la nuova guerra civile americana s’è accesa e dove, ad aprile, una sentenza esemplare ha cercato di spegnerla. Con esiti incerti. Tutti abbiamo un’idea vaga di Minneapolis, sorride De Bellis, ma questa città è soprattutto altro, “è un centro di propulsione culturale di prima grandezza, dopo Chicago la città più importante del Midwest”. E oggi più che mai è il centro naturale di un cambiamento. Che si può comprendere proprio attraverso il Walker Art Center, un museo-mito nella cultura americana che è venuto a farsi conoscere a Firenze, nelle sale rinascimentali di Palazzo Strozzi. Il Walker può aiutare a capire cosa sta accadendo nella società americana, ci spiega De Bellis in una conversazione. Ma prima bisogna conoscerlo.


E’ un luogo che propone gli sviluppi più estremi dell’arte dei nostri tempi, un concentrato di quello che l’America rappresenta. Ce l’ha scritto nella sua storia. Nasce nel 1874 quando un uomo d’affari, Thomas Barlow Walker, inizia una collezione d’arte molto eclettica, dalle giade cinesi alla pittura di paesaggio, che diventa una delle più importanti del Midwest. E decide di aprire le porte di casa sua a tutti: la prima galleria d’arte pubblica a ovest del Mississippi”. Sopravvissuta alla Depressione, sarà la mano pubblica del Minnesota Arts Council a trasformare il museo di T.B. Walker in un centro artistico modello, un “luogo per tutte le arti”. E’ questo il Dna, sempre in crescita nei decenni: non solo un museo, ma un laboratorio che spazia dalla pittura alla videoarte, dal cinema ai programmi educativi, al dialogo con i grandi musei nazionali e internazionali. “E’ nato come un esperimento: come costruire la promozione dell’arte e della cultura negli Stati Uniti anche al di fuori dei centri canonici, New York o le Coste. Per questo è da sempre anche un’icona della globalizzazione dell’arte americana, mai provinciale, mai chiuso: qui nel 1966 si fece una mostra sull’arte italiana, nel 1972 una dedicata all’arte giapponese”. Decenni fa.


E ora che Minneapolis è l’epicentro simbolico del cambiamento americano, il Walker Art Center è sbarcato in un luogo che ha, a sua volta, una particolarità: l’ambizione di portare a Firenze uno sguardo contemporaneo. Palazzo Strozzi. Fino al 29 agosto “American Art 1961-2001” propone 80 opere di 55 artisti provenienti dal Walker. L’idea nasce da lontano. Le prime chiacchiere tra Arturo Galansino, direttore della Fondazione Palazzo Strozzi e co-curatore della mostra, e De Bellis sono del 2016. Operazione non facilissima, di mezzo ci si è messo anche il Covid, ma eccoci. Una cavalcata fra opere importanti della collezione americana, molte in Italia per la prima volta. Warhol, Rothko, Lichtenstein, Mapplethorpe, Matthew Barney, Kara Walker. Nei credits, aggiornati al nuovo mood inclusivo, si legge che “sono presenti le opere di 53 artisti, di cui 27 viventi e 14 artiste. Tra loro, 6 artisti afroamericani, 2 nativi americani e 1 ispanico”. Un’occasione, però, che va oltre la possibilità di vedere celebri icone come le “Sixteen Jackies” di Warhol: il tema sottile è la disputa odierna attorno al senso stesso dell’arte. Innanzitutto, la periodizzazione: dal 1961 al 2001. Perché? “Mettere in mostra è sempre scegliere, decidere. Ma poiché la storia del Walker è anche una storia americana, abbiamo scelto due simboli: l’arrivo di Kennedy coincide con il massimo della proiezione mondiale degli Stati Uniti, il 2001 rappresenta la fine dell’epoca dell’unica potenza”. E siamo al presente. Un oggi che inizia in realtà con le rivolte razziali del 1992 a Los Angeles, una cesura sociale mai rimarginata e che a spinto una generazione di artisti a mettere al centro i temi politici e sociali, le minoranze etniche e quelle sessuali. Artisti affermati, anche se non sempre noti dal grande pubblico, come Mike Kelley, Catherine Opie o Mark Bradford, una star nel panorama americano che ha rappresentato gli Stati Uniti alla Biennale del 2017. Su tutte Kara Walker, che ha dedicato il suo percorso poliedrico proprio alla rilettura della storia americana: la schiavitù, le violenze, le oppressioni sessuali.


Proprio Minneapolis, con il Walker, è in un certo senso una capitale di questa storia che sta incidendo non solo nella politica americana, ma anche nella cultura. “E’ una cosa che vivendo lì senti in modo urticante, urgente – spiega De Bellis – Anche se ovviamente Minneapolis o la famosa ‘America profonda’, che più che altro è semplicemente sconosciuta, non sono solo guerra civile latente”.  Ma gli avvenimenti degli ultimi tempi danno maggior risalto a processi che esistono da tempo. Oggi che la letteratura o il cinema sono passati al setaccio dei principi di correttezza e inclusione, anche i musei devono stare attenti a quello che acquistano o mostrano? Sì, molto più di prima. Il Walker, da questo punto di vista, ha una situazione di piccolo privilegio, perché è stato sempre concepito come un luogo di sperimentazione di tutte le forme d’arte, ha sempre avuto un’apertura maggiore. Ma non si può negare che ‘purtroppo’ il 90 per cento degli artisti collezionati nei musei siano maschi bianchi: questa era la realtà. Anche se il Walker ha iniziato almeno dagli anni '90 a dare spazio alle artiste donne e a background culturali diversi”. E’ un cambiamento importante. C’è qualche possibile forzatura?Certamente è un cambiamento giusto e necessario. Anche se, con la mia personale sensibilità, che è europea, credo che se dietro a questa volontà di riequilibrio non crescerà un sistema educativo serio, non funzionerà. Diventare artisti non è un’improvvisazione, ci vogliono scuole, studi, maestri, istituzioni di alto livello. Se le donne o i neri non possono accedervi, è difficile diventare artisti. E’ ovvio che le politiche di inclusione siano utili, ma alla fine si pone anche un dilemma, per un curatore di museo: devo acquisire opere di valore o dare spazio ad artisti in base a elementi sociali, etnici? Scelgo per inclusività o per la qualità?”. Un dilemma che dovrebbe essere facile rivolvere, almeno in teoria… “Al Walker abbiamo sempre investito in qualità, conta solo la qualità. Non puoi esporre un’opera per la sola provenienza dell’autore. Ci vuole un processo che permetta ad altri background di crescere, ma ora non sempre c’è. Se non crei questo processo rischi di fare operazioni boomerang”. Per “boomerang” si può intendere anche il fatto che, sulla scia delle tensioni generate dal caso Floyd grandi musei come la Tate Modern hanno deciso di bloccare una mostra di Philip Guston, per paura che sul pubblico non sapesse giudicare “correttamente” le opere. “Sì, è un problema grave. Molti musei nel tentativo di essere inclusivi corrono il rischio di diventare censori, anzi di essere presuntuosi: la pretesa di farsi tutori di un pubblico che, evidentemente, non è ritenuto in grado di giudicare”.

In Italia viviamo queste cose come un riflesso lontano. E viste dall’America? “Il clima effettivamente è molto pesante, anche al di là dei casi che fanno notizia. Ormai è all’ordine del giorno in ogni museo la discussione se un curatore bianco possa proporre o mettere in mostra – letteralmente ‘far vedere’ – il corpo di una persona nera. O se possa farlo un maschio con l’opera di artiste donne. Sto preparando, al Walker, una mostra che contiene molti nudi femminili: non nego di aver dovuto combattere molte resistenze per poterla fare. C’è un clima affilato, su questi temi. Ma credo sia compito delle grandi istituzioni culturali saper valutare”. La mostra di Palazzo Strozzi è una mostra per tutti ed è anche un gesto augurale per la rinata libertà di muoverci, di cui il turismo culturale fa parte. Allo stesso tempo il Walker è il racconto di un’altra America, che illumina le tensioni di oggi.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"