L'intervista della domenica

Forte come un fiore

Simonetta Sciandivasci

Vedi cara, nove anni in libreria, la chitarra in salotto, la radio, Mara Maionchi, la tv, la fatica, la generosità, Instagram, la pensione anticipata. Conversazione con Daniela Collu

La prima volta che ho incontrato Daniela Collu, scrittrice, conduttrice radiofonica e televisiva, camminatrice e pure influencer (Wikipedia dice blogger, ma il suo blog è chiuso da anni), una settimana fa, a Ivrea, indossava un tailleur bianco con i fiori ricamati. Elegantissimo. Sotto, un paio di scarponcini neri da adolescente, di quelli che quando sei piccola metti in qualsiasi occasione, specie in quelle più formali, facendo disperare tua madre. Ha un’aria adulta e bambina, cinquanta e cinquanta. È divisa in due parti uguali, porta la riga al centro, e la frangetta, e i capelli lunghissimi.

La prima cosa che mi ha chiesto, dopo essersi presentata, è stata se avessi mangiato (arrivavo da un viaggio piuttosto lungo) e lo ha fatto anche tutte le volte dopo. Diceva Elsa Morante che "hai mangiato?" è l’unica vera frase d’amore e Daniela è amorevole, affettuosa, premurosa, talvolta materna. Però è anche dura, schietta. Su Amazon, tra i libri consigliati accanto ai suoi ce n’è uno che s’intitola “Ho deciso di usare il sarcasmo perché uccidere è illegale”. Lei dice che il sarcasmo le ha salvato la vita, soprattutto in famiglia.

Ha fatto per nove anni la libraia, è stata autrice televisiva, ha condotto Extra Factor e alcune puntate di X Factor, ha scritto libri, l’ultimo è una galleria di opere d’arte spiegate bene, in poco, “Un minuto d’arte”.

Ha un talento per la brevità, ma è una chiacchierona. È efficace. Come si dice: funziona.

Prende molti treni, altrettante posizioni: quando lo fa, sembra sempre che ne vada della sua vita. E’ stata una delle prime blogger di successo in Italia.

Le parlo al telefono, la sera prima che parta per il cammino degli dei: da Bologna a Firenze a piedi, da sola, tra gli Appennini. Centoquaranta chilometri in cinque giorni.

 

Ma la pagano, almeno?

Certo che no! C’è chi va in clinica a disintossicarsi, oppure beve solamente succo di frutta per una settimana: io cammino per giorni, mi ripulisco lo sguardo, il corpo, la testa, e me ne sto per conto mio, sola con la mia fatica e uno zaino di dieci chili in spalla.

 

Cosa c’è nel suo zaino?

La vasellina che si deve mettere sotto i calzini per evitare che il tessuto sfreghi e si creino le vesciche. Il kindle, un paio mutande, una felpa, un pantalone, un maglione.

 

Un solo cambio?

Uno solo. La sera, quando arrivo in albergo, lavo tutto e lo rimetto, pulito, il giorno dopo. Non inorridisca, Simone De Beauvoir girava l’Europa insieme a Sartre con in borsa semplicemente un paio di mutande e un libro.

 

Le piace la fatica?

Mi piace soltanto la fatica, temo. Quando non nasci ricca, sei convinta che parte della ricchezza consista nel guadagnarsela. E vale per tutto: il lavoro, i soldi, la bellezza, l’amore. Sono stata abituata a sudarmi qualunque cosa, ho sempre lavorato tanto, non ho avuto niente facilmente. Questa del camminare è una fatica bella e divertente, totalizzante.

 

Qual è la cosa che ha lavorato di più per ottenere?

La consapevolezza.

 

Di?

Di me.

 

Ora sa chi è?

Soprattutto so che alcune cose non le saprò o non le risolverò mai, altre non sarò capace di spiegarle senza che gli altri mi fraintendano e sarà soltanto colpa mia. Forse non è esatto dire che so chi sono, però so sempre che cosa succede intorno a me e dentro di me. Difficilmente vengo travolta. Non sono accorta, non mi risparmio, ma so a cosa vado incontro. Va bene uscire con l’ombrello durante un temporale se sei consapevole che tornerai a casa fradicia.

 

Ci sarà pure qualcosa che le fa perdere il controllo.

L’amore.

 

È facile farla innamorare?

Facilissimo. Sono come i gatti che incontri in Grecia: gli dai da mangiare e vengono a trovarti tutti i giorni. Tu pensi che ti amino, che vengano a cercarti perché gli piace ciò che pensi e che dici, ma loro vogliono soltanto il tuo formaggio. Diversamente dai gatti, m’impegno moltissimo nella costruzione dell’amore e finisco sempre a fare più dell’altro. È un errore di cui vado piuttosto fiera e che non saprei evitare. Diceva Guccini: “Non rimpiango tutto quello che mi hai dato, che sono io che l’ho creato e potrei rifarlo ora”. Mi innamoro quando mi rendo conto di aver trovato qualcuno che mi rende fertile e produttiva, qualcuno che mi fa venire voglia di costruire un mondo. 

 

Però in “Vedi Cara”, Guccini dice anche “sii contenta della parte che tu hai” e “tu sei molto anche se non sei abbastanza e non vedi la distanza che è fra i miei pensieri e i tuoi”. Le sta dicendo: puoi arrivare fino a un certo punto.

Le sta dicendo: non puoi scardinare il mio mondo, ma ne fai parte. Non so come mai sia consolidata in noi l’idea contraria, la convinzione che l’amore debba sradicarti ed essere totalizzante, inghiottente. Io credo che ci si ami quando ci si permette di essere chi si è, quando si incontra qualcuno che non ci porta via, ma ci permette di restare dove avevamo scelto di stare, qualcuno che non ci sottrae niente e si aggiunge alla nostra vita. 

 

E l’amicizia? Lei ha moltissimi seguaci, in larga parte donne che le dicono che vorrebbero un’amica come lei .  

È una cosa commovente e gratificante, ma ogni tanto mi tocca ricordare a chi mi segue che non sono un’amica, che non ci conosciamo, che i social network non mostrano che il 5 per cento di chiunque di noi. Un cinque per cento che non dico che sia finto, ma che è frutto di una selezione, è una parte minuscola della vita di una persona, anche se, invece, ci dà l’impressione di essere una parte enorme e di offrirci tutte le chiavi di accesso, di farci conoscere chi osserviamo come ce lo farebbe conoscere lo stargli accanto tutti i giorni. Mi impressiona sempre quando mi dicono che si stanno affezionando a me: significa che devono chiudere Instagram, buttare il telefono, mettersi al centro di una piazza a parlare con le persone, chiamare gli amici delle medie, interagire con gli altri, estranei o no che siano, alla pari. Quando capisco che si prendono delle libertà che non devono prendersi, che mi chiedono più di quello che possono chiedere a una che lavora in radio e fa dieci storie Ig al giorno, il mio modo per volergli bene è dire loro: ma chi ti conosce? E lo stesso voglio che pensino loro: ma chi la conosce questa?

 

Le persone si sono indebolite?

Si sono isolate. L’altro giorno leggevo che sono esplosi i contatti su Tinder ma che soltanto il 20 per cento degli incontri sull’app porta poi a un appuntamento. Ci siamo rifugiati in questa specie di relazione epistolare con il mondo in cui ci sembra di vederci tutti, di parlarci tutti, di conoscerci tutti anche se non ci vediamo mai, non ci parliamo mai, non ci confidiamo mai: abbiamo perso la cognizione della differenza, crediamo che scriversi sia come parlarsi, forse anche meglio.  

 

Io sono una di quelle che pensa che a volte scriversi sia meglio che incontrarsi, che in certi casi sia persino più vero un messaggio che un abbraccio, o almeno che riesca a dire di più.

Io non la metto sul piano di vero o falso. Dico che quando interagiamo scrivendoci o guardandoci su Instagram, in quegli spazi di incontro non entrano e non entreranno mai alcune parti essenziali della nostra vita. In una story non ci sono i momenti di stanchezza, di capriccio, di indolenza, di lagna, di indisponibilità. Il fatto che questi momenti non abbiano spazio, non significa che non esistono. Una volta un tale m’ha chiesto se avessi degli amici, perché sui miei profili non si vedono mai, e allora ho dovuto spiegargli che quello che si vede sui social non è tutto, non è mai tutto, e non può che essere così. È banale, eppure a moltissimi sfugge.

 

Quando ha smesso di scrivere il  blog?

Una mattina di alcuni anni fa, quando lavoravo al Grande Fratello, sentii un mio collega ironizzare su alcune cose che avevo scritto e non mi piacque. Mi resi conto per la prima volta che chi mi leggeva poteva usare quello che scrivevo in modi troppo fuorvianti, e che su quel blog arrivavano persone seguendo flussi che non potevo più controllare. Mi resi conto soprattutto che era diventato impossibile tutelare ciò che scrivevo dalla manipolazione degli altri e che io sarei stata identificata con quello che scrivevo, per via di un meccanismo molto simile a quello che ci fa credere che conosciamo Chiara Ferragni e Fedez perché non ci perdiamo niente di quello che condividono.

 

Scrivere quel diario non le manca?

Credo di esprimermi fin troppo.

 

È stanca?

No, ma ho imparato a parlare quando ne vale la pena. Ho imparato a chiedermi, prima di scrivere una cosa o condividere un contenuto di qualsiasi tipo: alla gente importa? Il mondo può fare a meno della mia opinione? La risposta è quasi sempre sì, sa?

 

Legge i giornali?

Sì, per lavoro. Non mi piacciono particolarmente.

 

Come mai?

Si è rotto il patto di fiducia. In troppe occasioni è venuto fuori che raccontavano balle o inesattezze e questo ha comportato che ora mi sento costretta a verificare quello che leggo. Non parlo del confronto di opinioni, tesi, modi di raccontare e dare la notizia: la tridimensionalità l’ho sempre cercata e penso che internet, in questo, sia uno strumento eccezionale. Dei giornali, però, siamo al punto che tocca a noi lettori verificare se tutte le notizie siano vere o false: significa che non possiamo più fidarci della ragione per cui esistono. È come se dovessi verificare se l’acqua del rubinetto è potabile ogni volta che bevo.

 

Legge newsletter?

Sono iscritta a quasi tutte quelle esistenti! Le confesso, però, che ne leggo una minuscola parte, a volte nessuna. Le confesso pure che, alla fine della giornata, guardo il Tg2. Credo che, come me, lo facciano in molti e, se vuole, è una bella speranza per il futuro dell’informazione tradizionale: ci si dovrebbe costruire sopra.

 

Il futuro della comunicazione la angoscia?

No, per niente. E non so cosa farò tra dieci anni: è fortemente probabile che il mio lavoro non esisterà più. Come che sia, non voglio lavorare tutta la vita. Anzi, il mio sogno è smettere il prima possibile.

 

A sessant’anni?

A cinquanta!

 

E per fare cosa?

Camminare, svegliarmi al mare, leggere trenta pagine di un libro a letto, andare a pranzo con un’amica, andare al cinema allo spettacolo delle tre. Vorrei fare le cose che mi piacciono e non posso accettare che, siccome sono tante, le posso fare solo due ore a settimana perché per il resto del tempo devo lavorare. Ho lavorato i giorni di festa, a capodanno, ho fatto i programmi che cominciavano a mezzanotte e mezza, ho fatto su le mani, ho fatto giù le mani, ho scritto i libri, e non so, forse farò la ghost writer degli influencer o la consulente per le aziende, ma sono obiettivi transitori. Quello finale è avere una piscina e un roseto curato da un altro da godermi tutti i giorni.

 

Che noia.

In ufficio, invece, lei si diverte? Parla con una collega stronza e fa il lavoro suo e quello che il capo non ha voglia di fare: non mi sembra tanto più entusiasmante. Quelli che dicono che, dopo due settimane in vacanza, vogliono tornare in ufficio, non ne hanno mai fatte tre. Quando ho intervistato Roberto Baggio e l’ho punzecchiato proprio sul fatto che lui se ne sta in campagna ed è fuori dal glamour dei suoi colleghi, mi ha risposto che lui quando giocava e lavorava moltissimo, lo faceva con un solo obiettivo: fare la vita che fa adesso. Ritirata, semplice e in pace. Per me è lo stesso. Non mi aspetto che sia una vita più emozionante di quella che faccio ora: so avrà i suoi tempi morti, i suoi problemi, le sue angosce, la sua routine esasperante, la sua inquietudine. Dico che finora ho provato la vita attiva, che è un modo di stare al mondo: ne voglio provare un altro.

 

Insomma lei lavora per poter smettere di farlo il prima possibile.

Impreciso. Io lavoro per poter smettere quando voglio. Senta come suona bene: che hai fatto oggi? Ho guardato la polvere negli angoli. Quant’è poetico.

 

Mi sta convincendo.

Sono un’influencer.

 

Mi potrebbe vendere anche la piscina di Trevi.

La Fontana!

 

Che lapsus. Vede come mi ha plagiata con quell’immagine di bordo piscina al posto dell’ufficio? Ora non penso che alle piscine.

Capisco perfettamente. Comunque non le venderei mai la Fontana di Trevi perché non inganno, e questo mi impedirà di diventare davvero ricca.

 

Però ha venduto moltissimi libri. Ha fatto per nove anni la libraia. 

La libraia e la bigliettaia ai musei del comune Roma. Tutti. I mercati di Traiano, l’arancera a villa Borghese, il museo della fotografia di Trastevere, la galleria comunale d’arte moderna. Studiavo per prendere la laurea magistrale in storia dell’arte e credevo di essere nel mio mondo, non mi sembrava vero di poter assistere agli allestimenti delle mostre, di passare le giornate tra gallerie piene di opere d’arte. Avevo moltissime idee, ero certa che prima o poi si sarebbero accorti di quanto fossi appassionata e mi avrebbero dato la possibilità di mettermi alla prova. Invece, c’era una gestione ministeriale, non potevo che starmene a guardare. Ci misi nove anni e qualche incontro importante per decidermi a mollare tutto, accettare che lì dentro non avrei mai fatto quello che sognavo di fare.

 

Qual è stato l’incontro cruciale?

Il primo, con un signore di sessant’anni che passava in cassa per un libro. Cominciammo a chiacchierare e a un certo punto mi chiese cosa ci facessi lì, perché non scappassi via a fare qualcosa di più bello e anche più rischioso. Mi coinvolse in un progetto bellissimo che aveva in mente per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Alla fine non se ne fece nulla ma per me fu importante che qualcuno volesse coinvolgermi in qualcosa, mi diede una misura diversa del mio valore e delle mie potenzialità. Soprattutto, mi fece capire che potevo contare su di me, anzi: dovevo farlo. E allora cominciai a guardami intorno. Ho incontrato, da allora, molte persone che hanno avuto fiducia in me. Io non ho le porte aperte quindi chiunque mi abbia invitato a varcarne una è stato per me fondamentale. Il capo autore del Grande Fratello, per esempio, mi ha insegnato tutto quello che so della tv.

 

E cosa sa?

Che non la fai per te ma per il pubblico, che devi sempre e solo pensare a chi ti guarda, che non ti devi chiedere cosa faccio ma cosa vedono, che tu non servi a niente perché nove volte su dieci il programma lo stanno guardando senza audio persone che, intanto, caricano la lavastoviglie o litigano o fanno sesso. Che la soglia di attenzione è molto bassa e quindi il pubblico va riagganciato ogni tre minuti. Che quello che fai è, in fondo, è influente.

 

Com’è stato lavorare con Mara Maionchi a X Factor?

Quando lavori con lei è come se ci fosse una scritta nel cielo che ti dice: vai bene così come sei. È una sicura di sé per sé, non è di quelle che mettono gli altri all’angolo. Ha ironia, cazzimma e velocità di pensiero, ed è una delle persone con più carisma che io abbia mai incontrato: quando entra in una stanza, la temperatura sale di un grado. Soprattutto, Mara è generosa.

 

Quanto conta le generosità nella comunicazione?

La comunicazione è generosità, in qualunque forma. Credo che la condivisione sia generosità sia quando è attiva e bilaterale, sia quando arriva soltanto da una parte. Penso ai divulgatori online, a chi si impegna per aggiornare Wikipedia. Sono una di quelle che versa ogni anno del denaro per Wikipedia e mi sembra il minimo, visto che l’80 per cento delle cose su cui lavoro viene verificato lì. Vorrei fare molto di più, incluso un regalo di Natale per ogni divulgatore. Prima o poi troverò un modo, chissà quanti sono, dove abitano, se c’è un elenco con tutti gli indirizzi.

 

Mi spiega for dummies cosa fa un’influencer come lei? Glielo chiedo perché l’ho vista fare di tutto, e molto di quello che ho visto ha a che fare con la divulgazione culturale. L’altro giorno ho trovato un video in cui lei legge Queneau a Monti.

Mi muovo su due linee parallele. La prima è quella dei contenuti che creo io, in maniera spontanea e più o meno scritta, e che riguardano mie grandi passioni, sciocchezze che mi vengono in mente mentre aspetto che cuociano le patate, dalla terapia di gruppo su Ig a un minuto d’arte, e in quel modo il pubblico ti prende in simpatia: tu sei lì, racconti delle cose e allarghi lo spazio dell’intrattenimento anche a casa tua, alle tue passeggiate, al tuo tempo libero. I brand, quando si accorgono che hai una community nutrita e fedele, ti chiedono di raccontarle i loro progetti, prodotti, idee. Quindi vengono da me e mi dicono: ciao Daniela, ho un gelato, un progetto, un festival, una crema, ti andrebbe di raccontarli? E io scelgo cosa posso fare meglio e mi interessa più, e lo restituisco, filtrato da me, a chi mi segue. Per questo percepisco del denaro.

 

Mi piace come dice denaro.

Anche a me.

 

La fermano per strada?

Sì. Lo fanno in modo colorito e rumoroso e a volte vorrei rimproverarli, ma siccome sono colorita e rumorosa anche io, mi fermo, ci rido su e me la godo.

 

Ha detto che il brutto e il bello non esistono. Conferma?

Sì.

 

Cosa si aspetta da un’opera d’arte?

Niente.

 

Nulla?

Non nulla: niente. Sono due cose diverse. Il mio meraviglioso professore di critica d’arte all’università ci diceva sempre: concedetevi che la prima relazione con l’opera sia quanto starete bene sul divano. Significa che qualsiasi approccio all’opera d’arte è legittimo, incluso dire che la cappella Sistina ti ricorda Versace.

 

Cosa la colpisce di più, allora?

Jackson Pollock ha fatto in pittura quello che il jazz ha fatto in musica. Il suo pennello non ha mai toccato la tela. E tutto questo ha attratto persino gli scienziati, che nei suoi quadri hanno cercato di individuare i frattali. Nella vita, però, Pollock scambiava i suoi quadri per delle casse di birra, era dipendente da Peggy Guggenheim e non metteva il titolo a quello che faceva. Ci sono decine di letture che possiamo dare a questi elementi, ed è sempre questo che mi affascina: quanto costruiamo noi su un artista. Pensi a Marina Abramovic, una che ha messo in mano al pubblico una pistola, una che ha detto: metto il mio corpo a disposizione vostra, fate di me quello che volete, guardate cosa sono disposta a fare per l’arte e non per me, per qualcosa che è al di fuori di me e che non decido io, che è altrove e che non rimane nemmeno, visto che la performance non rimane, non è un oggetto fisico che si può toccare e vendere. Eppure, per molta gente, di Marina Abramovic resta la stretta di mano con Ulay al MoMa. Il video più visto su YouTube di quella performance, in didascalia, non riporta nemmeno i nomi: c’è scritto semplicemente che queste due persone, un tempo amanti, si sono riviste per caso in un museo. Ma è questo il bello: il destino dell’arte lo facciamo tutti quanti.

 

Cosa vuole imparare?

Andare in bicicletta. Parlare molte lingue. Fare immersioni. Il mio ragazzo la seconda volta che è venuto a casa mia mi ha portato una chitarra e io non la so suonare. Devo rimediare.

 

Gliel’ha regalata per convincerla a imparare?

Semplicemente, ha detto che non esiste una casa in cui non c’è una chitarra. Ha ragione. Così, la suona chi viene qui ma non io.

 

Quanto è bello essere una donna oggi?

Poco. Intanto, non penso tutto il giorno al fatto che sono una donna e le volte che mi ricordo di esserlo è perché sto faticando a fare una cosa, a farmi ascoltare, a farmi riconoscere. Non sono una di quelle secondo le quali madre natura è femmina, non mi importa niente del femminile in quel senso. Non mi sento migliore degli uomini, o più sensibile o più perspicace. Ovviamente questo non significa che non mi spacchi il culo per fare sì che tutti gli ostacoli che le donne devono affrontare, vengano ridotti.

 

Qual è la difficoltà più grande che le viene dall’essere una donna?

Dover dimostrare di essere adatta a qualcosa, soprattutto dal punto di vista professionale. So di essere una buona conduttrice, eppure mi rendo conto che non ho il fisico per la prima serata femminile. Agli uomini questo non succede. Sono stata più volte in sale autori in cui le domande e le considerazioni che venivano fatte sulle donne (sul corpo, l’età, la vita familiare, il modo di fare) non venivano fatte sugli uomini. Sono assertiva e sanguigna, e questi tratti caratteriali a un maschio danno sostanza, mentre a me ne tolgono: mi fanno passare per una incapace di controllarsi. Voglio dire: nessuno chiede mai a Cruciani perché s’infervora: anzi, è una delle ragioni per cui è tanto seguito. Io sono stata lasciata perché mi infervoravo, ero troppo vecchia per fare i figli, ero ingrassata, ero irascibile.

 

Dove si rifugia?

Al mare, da sola. Faccio il bagno a marzo e il mercoledì in pausa pranzo, quando non c’è nessuno.

 

Non ha mai paura del mare?

L'acqua è il mio elemento mimetico: vorrei essere acqua. Ho bisogno di essere trasparente e profonda, caldissima e freddissima, di adattarmi a tutte le superfici, di asciugarmi ed emergere dalla sabbia.

 

Hai bisogno anche di essere bevuta?

Certo. È la cosa di cui ho più bisogno.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.