Il Doppio ritratto dei duchi di Urbino, Federico da Montefeltro e Battista Sforza, di Piero della Francesca (Wikimedia)

In morte di Gianfranco Morra

Sergio Belardinelli

La scomparsa di un intellettuale che mirava all’essenziale, non alle mode passeggere. Non solo l’immagine dell’uomo rinascimentale gli si addiceva alla perfezione, ma era egli stesso un uomo del Rinascimento

Nei giorni scorsi è morto Gianfranco Morra. Aveva novant’anni. La prima volta che lo incontrai, nel 1988, rimasi colpito dai suoi capelli arruffati e dal volto somigliante, almeno per me, al ritratto di Federico da Montefeltro dipinto da Piero della Francesca. La qual cosa, come ebbi modo di dirgli più volte, forse indicava  soltanto la mia scarsa dimestichezza con la fisionomia delle persone. Ma negli anni, e specialmente oggi che se n’è andato, quella prima impressione un po’ bislacca mi appare invece felicissima. Non solo l’immagine dell’uomo rinascimentale gli si addiceva alla perfezione, ma Morra era un uomo del Rinascimento. Aveva la stessa curiosità per il mondo e per la vita, la stessa passione per la cultura e per la bellezza, la stessa inclinazione per le idee bene ordinate anche quando si mostrava sarcastico e stravagante (quante simpatie alienate per non rinunciare a una battuta!). 

 

Filosofo e sociologo tra i più importanti in Italia, ci restano i suoi studi su Giuseppe Rensi, quelli sul problema morale nel Neopositivismo, quelli su Max Scheler e la sociologia del sapere, quelli sulla secolarizzazione e la riscoperta del sacro, e gli ultimi dedicati alla crisi del cristianesimo e dell’occidente: Europa invertebrata, Antidizionario dell’occidente, Il cane di Zaratustra, tanto per citarne alcuni. In tutti questi studi, si avverte la presenza di Nietzsche e Scheler come riferimenti teorici privilegiati di una lettura sui generis della modernità: molto critica, a tratti persino antimoderna, ma anche desiderosa di riconciliare la modernità con quella parte della tradizione del pensiero cristiano che da Agostino giunge fino a Rosmini. Questa, in estrema sintesi, la prospettiva filosofica di Gianfranco Morra.

 

Pensatore profondo, sempre inattuale e dallo stile spesso sarcastico, la sua storia non poteva non essere che quella di un costante “insuccesso”. Al pari della rivista Ethica, da lui fondata nel 1962 e diretta fino al 1973, della quale in un editoriale memorabile del 1963 esaltava le finalità “inattuali e anacronistiche” che proprio per questo garantivano “validità” e “durata non provvisoria”, Morra ha sempre mirato all’essenziale anziché alle mode del momento. Naturale che la cultura italiana, specialmente quella di sinistra, non lo amasse. Meno naturale che non lo amassero nemmeno quella cattolica o quella di destra. Ma tant’è. In ogni caso negli anni in cui il marxismo era padrone incontrastato della scena filosofico-culturale del nostro paese e la cultura cattolica sonnecchiava con stanchezza subendone il fascino, Morra e pochi altri, ad esempio Augusto Del Noce e Sergio Cotta, esortavano a leggere Nietzsche, Scheler, Kierkegaard o la scuola di Francoforte, con un’intenzione che andava ben oltre la volontà di contrastare la moda marxista imperante. La loro prospettiva era infatti, sì, antimarxista, ma lo era soprattutto in quanto radicalmente antitetica a certi tratti scientisti, utilitaristi, storicisti, nichilisti della modernità. In un certo senso si trattava di una prospettiva che, già negli anni Settanta e Ottanta, prevedeva una situazione post marxista e post moderna, intrisa degli stessi pregiudizi, e che Morra stigmatizzò da par suo come semplice “modernità del dopo”. 

 

Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo da vicino ha potuto sperimentare la forza di queste sue idee, come pure la sua sorprendente apertura. Non sopportava la sciatteria e le facili semplificazioni, per il resto con lui si poteva discutere e dissentire su qualsiasi cosa. Tutto questo ci mancherà. Ci mancheranno la sua intelligenza, la sua eccentricità, la sua vitalità, il fascino delle sue parole mai stanche e stereotipate, capaci di arrivare come un prezioso privilegio anche quando erano difficili da condividere.

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