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Vite minime o smisurate, inventate o reali. In ogni caso, raccontate benissimo

Mariarosa Mancuso

Il delizioso “Libro di furti” di Eugenio Baroncelli edito da Sellerio ha molti padri, da Marcel Schwob a Peter Greenaway, ma tanta divertita leggerezza
 

 

L’ha rifatto. Un altro libro con tasselli di vite minime, o di vite smisurate raccontate al risparmio. Vite vere, inventate, e in tutte le combinazioni intermedie tra il vero e il falso. Per quanto uno abbia letto e riletto Edgar Allan Poe, non ricorda il dettaglio che bevesse whisky con la menta. Vite raccontate benissimo, roba da far arrossire scrittori e autobiografi che riempiono pagine e pagine, senza riuscire a infilzare con lo spillo la farfalla. Eugenio Baroncelli l’ha rifatto, per il divertimento di chi legge. Il suo Libro di furti. 301 vite rubate alla mia (Sellerio) ha la grazia e la precisione dei precedenti: Libro di candele. 276 vite in due o tre pose e Mosche d’inverno. 271 morti in due o tre pose.

 

Il lettore ne esce deliziato, qualcuno un po’ impaurito. Libro di furti dedica una paginetta agli incidenti librari, che fanno venire i brividi a chiunque possieda una bibliotechina, non parliamo poi dei lettori seriali. Il pianista Charles-Valentine Alkan a fine Ottocento morì travolto dalla sua libreria (con il kindle non potrebbe succedere, gli affezionati alla pesantissima carta, anche in occasione dei traslochi, potrebbero ripensarci). Una studiosa di letteratura anglosassone compra le poesie di Emily Dickinson, comincia a leggerle e viene investita al primo incrocio. Un amico dello scrittore, indicato solo con l’iniziale, cercando sugli scaffali più alti un romanzo russo cade e deve rinunciare a una promettente carriera da calciatore.

 

Ha molti padri, Eugenio Baroncelli (ogni tanto fa capolino come personaggio, o si sdoppia nell’Eugenio che scrive e l’Eugenio che vive: piccolo e superfluo giochetto sperimentale, in un librino che strizza l’occhio a tutte le avanguardie senza molestare il lettore). Primo fra tutti, a fine Ottocento, Marcel Schwob con le sue Vite immaginarie. Poi Pierre Michon con le sue Vite minuscole, quasi un secolo dopo. Nel 1993, Giuseppe Pontiggia scrive le sue Vite di uomini non illustri. Interessanti anche i parenti lontani. Per esempio, il film di Uberto Pasolini intitolato “Still Life” (così gli anglosassoni indicano il genere pittorico che noi chiamiamo “natura morta”). Al funzionario comunale di una cittadina inglese tocca organizzare i funerali delle persone morte in totale solitudine. Lui, che vive solitario mangiando sempre la stessa scatoletta di tonno, si mette d’impegno: dai pochi oggetti ritrovati in casa immagina la vita dei defunti, e improvvisa un discorsetto (ha anche vari CD, con le musiche appropriate alle diverse religioni).

 

“Lilli e il vagabondo” racconta Ennio Flaiano innamorato, che scrive a una ragazza norvegese di nome Lilli. Riferisce delle serate romane al caffè Greco – “ci guardiamo, parliamo, e tutto finisce come il giorno precedente”. Dice di sé “scrivo un po’ senza alcuna illusione”, e aggiunge: “Ho quasi dimenticato il sapore di una donna intelligente”. Un capitolo è dedicato ai tristi triestini attorno a Italo Svevo – c’era anche “el sor Zois”, così gli indigeni chiamavano James Joyce.

Un altro a Montale, con donne, amici, “traduttrici fantasma”, e la governante Maria Bordigoni che in una foto sgranata “tiene in braccio il piccolo Eugenio già debitamente imbronciato”. Meno fortunati i “bambini della ruota”, la cassetta girevole dove le madri abbandonavano il neonato alla pubblica o religiosa carità, senza farsi riconoscere. I conventi tenevano un registro di queste vite, che Baroncelli non si lascia sfuggire. Come fece Peter Greenaway in un fascinoso documentario intitolato “I morti della Senna”, spulciando i registri degli annegati, dopo la Rivoluzione francese.

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