Brown nel "Tragico preludio", murale del Campidoglio di Topeka (Kansas). Da Wikipedia

Nell'appassionata difesa di John Brown il vero umanesimo americano

Alfonso Berardinelli

Il nostro americanismo e’ un equivoco. Ci salva Thoreau, raccontando la storia del liberatore di schiavi che diede la vita per il suo ideale di uguaglianza e democrazia, tuttora non realizzato

Si può certo criticare l’umanesimo, qualunque cosa si intenda con questo termine. Eppure mi sembra non meno certo che se si parla spensieratamente di “postumano”, qualunque cosa si intenda, credo che sia meglio riqualificare l’umanesimo. Nell’ultimo mezzo secolo in Italia (e in Francia) si è liquidato spesso l’umanesimo come qualcosa di scolastico, quasi un distintivo arrugginito per “professori di lettere” incapaci di vedere il mondo come è. Ma esiste, per esempio, anche l’umanesimo americano, che nella maggiore, più ricca e potente democrazia capitalistica del mondo è ancora vivo. La sua formulazione più complessa è stata quella del “trascendentalismo” ottocentesco in cui si mescolavano Kant, i romantici inglesi e il pensiero orientale, e che ha coinvolto autori come Emerson, Thoreau, Melville, Whitman.

 

La religiosità degli Stati Uniti non è nutrita solo di Bibbia, anche se prevede la Bibbia al primo posto, rispetto alla cultura classica greco-latina. E’ la religione del lavoro e della socialità solidale ma competitiva, della libertà e della legalità, dell’uomo comune onesto, coerente e tenace fino all’eroismo. Infine, anche la religione della giustizia contro le leggi ingiuste, poiché non tutto ciò che è legale e legalizzato, è anche morale.

 

Il nostro americanismo italiano è un’infatuazione, una banalità, un equivoco che non prevede la religione e il moralismo americani. Il Novecento, il “secolo americano”, ci ha reso sensibili prima a Hemingway e John Ford, poi a Kerouac, Andy Warhol e Woody Allen, ma molto meno alla migliore cultura americana alta. Quanti filosofi italiani (ed europei) mostrano di aver letto William James, John Dewey e Thorstein Veblen?

 

Penso questo ancora una volta mentre leggo con rinnovata emozione l’Apologia di John Brown scritta e pronunciata da Henry David Thoreau nel 1859, ora ripubblicata a cura di Franco Venturi con testo originale a fronte (La Vita Felice, 101 pp., 10 euro).  Con un gruppo di uomini tra cui alcuni dei suoi molti figli, John Brown, quasi sessantenne, prese d’assalto il deposito federale di armi di Harper’s Ferry in Virginia e le avrebbe poi distribuite agli schiavi negri. Invece di allontanarsi velocemente, come aveva fatto altre volte nelle sue azioni di guerriglia antischiavista, rimase in attesa di una rivolta di schiavi che non ci fu. Il piccolo gruppo fu circondato e sopraffatto dai marines; ci fu un processo che si concluse con una condanna a morte per impiccagione di tutti i superstiti e la stampa non fece altro che disapprovare, condannare e denigrare umanamente e politicamente John Brown.

 

La temperatura emotiva e morale, l’energia oratoria del saggio di Thoreau ne fanno un testo esemplare dell’umanesimo americano. Una volta letto, è difficile dimenticarlo. Sappiamo chi è Jesse James, Billy the Kid e Wyatt Earp, ma continuiamo a ignorare John Brown, il liberatore di schiavi che ha dato la vita per il suo ideale di uguaglianza e di democrazia, tuttora non realizzato. Americano del New England, contadino e organizzatore di azioni abolizioniste, John Brown era figlio di un calvinista rigoroso che giudicava la schiavitù “un atto contro Dio”. Fin da bambino si era chiesto perché i suoi coetanei negri venissero tanto brutalmente maltrattati senza che nessuno li proteggesse e aveva concluso che forse era Dio il loro padre. Per il resto, non sarei capace di riassumere adeguatamente (nessuno ci riuscirebbe) il testo di Thoreau. Mi limito a citare qualche frase: “Altri potevano fronteggiare coraggiosamente i nemici del loro paese, ma lui aveva il coraggio di fronteggiare il suo stesso paese, quando questo sbagliava”.

 

“Non andò ad Harvard. Non fu nutrito con la pappa che lì viene somministrata (…) Ma andò nella grande università del West, dove assiduamente perseguì lo studio della libertà, per il quale aveva mostrato una spiccata disposizione”.

 

“Apparteneva a quella categoria di uomini dei quali sentiamo tanto parlare ma che di solito non vediamo mai: i Puritani. E’ morto tempo fa all’epoca di Cromwell, ma è riapparso qui”.

 

“Che importa se non appartenne alla nostra cricca? Se non potete approvare il suo metodo e i suoi principi, riconoscete almeno la sua magnanimità”.

 

“Nessun uomo in America ha mai sostenuto con tanta perseveranza e di fatto la dignità della natura umana (…) In questo senso, egli è stato il più americano di tutti noi”.

 

“Quando un governo usa la propria forza per difendere l’ingiustizia, come fa il nostro, che sostiene lo schiavismo e uccide i liberatori degli schiavi, esso si rivela mera forza bruta o, peggio ancora, forza demoniaca”.

 

“Quando penso a quale causa si dedicò quest’uomo, e quanto religiosamente, e penso poi a quale causa si dedichino i suoi giudici e tutti coloro che lo condannano con tanta prontezza e ferocia, vedo che tra l’uno e gli altri corre la stessa distanza che c’è fra il cielo e la terra”.

 

Probabilmente i metodi di John Brown oggi non tutti potranno considerarli politicamente corretti. Ma per capire le situazioni storiche reali c’è sempre bisogno di una certa immaginazione storica.
 

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