“L’urlo” (“Skrik”), del pittore norvegese Edvard Munch, esposto alla Galleria nazionale di Oslo (LaPresse)

nessuno dirà più niente

La rivoluzione del silenzio

Simonetta Sciandivasci

Non si può fare di tutto una polemica, una rissa urlata. Ma la battaglia culturale del nuovo secolo si fonda sulla semplificazione. Per questo scegliamo di chiuderci in noi stessi, per non offendere e non essere offesi
 

Sei in fila al supermercato e ti guardi intorno. Sei circondata da snack di ogni tipo: sono stati posizionati lì da uno o più esperti di shelf marketing, i quali sanno perfettamente cosa sei incline a comprare mentre aspetti e hai il carrello pieno e fai pensieri cattivi e sanguinari su quella che ti sta davanti. Ti si ferma lo sguardo su un pacchetto di patatine al wasabi e ti chiedi come sia possibile che al mondo esista gente che mangia il wasabi, e dopo che hai provato un profondo ma innocuo disgusto ti scappa da ridere, e allora smetti di pensare a come uccidere il bradipo che ti precede e scrivi un tweet su questo che ti sembra un fatto obbrobrioso ma prima ancora ridicolo, su quest’uso che abbiamo di complicare il pane (o le patatine) e peggiorarlo, e che ti dà l’occasione per ricordare una splendida Fran Lebowitz: “La gente cucina e mangia da migliaia di anni, dev’esserci un motivo se nessuno prima di voi ha pensato di aggiungere succo di lime fresco alle patatine gratinate”. Metti, nel tuo tweet, wasabi al posto di lime, e aggiungi, tra parentesi: quasi cit. Controlli che non ci siano refusi, ma prima di inviare, ti fermi, t’attraversa un’epifania che ti lascia quasi carbonizzata, di certo attonita: ti prefiguri la possibile, fortemente probabile reazione di uno due dieci mille arrabbiati senza nome e cognome e anziché una salutare espressione romana ben usata dal grande capo Estiquatsi alcuni anni fa, pensi: desisto. Ed effettivamente desisti. Torni a odiare il bradipo, paghi, vai a casa, ti congratuli con te stessa per non aver leso la sensibilità della comunità giapponese, né invitato nessuno all’autarchia sovranista. 

 

Ultimamente, desisti spesso. Non entri in polemica. Resti sull’uscio, chiudi la porta, zittisci quella voce che, ogni tanto, ti dice: buongiorno, sono un pensiero e non ho un’opinione, mi fai dire qualcosa oppure devo continuare a condurre questa vita terrificante, da pentito ’ndranghetista, senza nemmeno una scorta? Vorresti dire al tuo pensiero che nessuno lo imbavaglia o lo incatena: non cominciamo con la storia del non si può più dire niente, ché in questo paese si può dire tutto e prova ne è quello che succede nelle trasmissioni televisive pomeridiane, dove usare la N word è la cosa meno impresentabile che si possa fare. Vorresti dire al tuo pensiero che hai sviluppato una forma di obbedienza cronica che ti spinge a non respingere niente, men che meno lui. Per te hanno tutti ragione. Stai con tutti, non ti spendi per nessuno. Annuisci, ti lasci trasportare. Dici: va bene, scusa. Dici: x ma anche y. Dici: entrambi. Hai mollato, ne sei quasi fiera, di certo sollevata. Hai brigato, discusso, corretto, rischiato, ballato e provato di tutto, l’ipnosi, la destra, tequila e guaranà e a cosa è servito? 

 

Sei come un marito che, a un certo punto, s’accorge che la moglie gli si mette di traverso qualsiasi cosa lui faccia, o dica, o pensi, o indossi, e allora anziché ribellarsi, tace, accetta, scompare nella tappezzeria. Hai letto David Sedaris sul New Yorker, ha scritto che dormire è il nuovo scopare. Hai pensato che ha ragione, ma la differenza tra te e lui, oltre naturalmente al fatto che lui è uno scrittore stupendo e tu non sei niente di niente, è che lui si riferisce a una relazione pluridecennale, la sua, mentre tu ti riferisci a relazioni possibili, che neppure hai, e delle quali però senti già il peso. Come per quel tweet su wasabi, ti prefiguri il dopo: litigi e poi scuse accuse scuse senza ritorno. Avverti già la fatica. Ti immagini il sesso: ti andrà davvero, sì, no, forse, come farai a capirlo? Meglio dormire. Vuoi un fidanzato con cui dormire. Dormire è il nuovo vivere. 

 

Succede, a un certo punto di una relazione tra due persone, di qualsiasi tipo sia, che si logora, si fa spago, uno di quelli che trovi in spiaggia a maggio e, se li prendi in mano, si sbriciolano. Succede, allora, che i due contraenti si dicono addio, oppure continuano a convivere senza mai avere a che fare davvero l’uno con l’altra, senza confliggere mai, obbedendosi a vicenda per non subire ripicche, musi, urla. Mentono. Omettono. Ingoiano. Mollano. Dormono. S’arrendono per quieto vivere, ottengono una pace armata. 

 

Si sceglie sempre di seguire il demone meno rumoroso. Tra l’agio e la passione, in “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, Mariangela Melato sceglie l’agio. Kate Winslet, in “Titanic”, sceglie la passione. Il criterio di entrambe è lo stesso: obbedire al richiamo che offre il margine di vantaggio superiore, posto che la valutazione di cosa sia il vantaggio è soggettiva. Su La Lettura del Corriere della settimana scorsa, in una riflessione sul libro di Natalino Irti, “Viaggio tra gli obbedienti” (La Nave di Teseo), Piergaetano Marchetti osservava che durante la pandemia ci è stato richiesto continuamente di obbedire a regole che, di fatto, infrangevano alcuni nostri diritti fondamentali, in nome di un bene più grande, per salvarci la vita. Si sono accavallate “norme scritte in un linguaggio oscuro” e questo ha prodotto da una parte una assenza di regole chiare cui attenersi, dall’altra una sfiducia più o meno esplicita verso il legislatore e le istituzioni in generale: entrambi i fattori avrebbero spinto la politica a “sollecitare un’obbedienza che non comporta adesione cosciente al comando, ma spinge i cittadini sul piano inclinato dell’irrazionalità”. 

 

È un processo simile a quello che ti ha spinta a ritrarti, a desistere dall’inviare quel tweet con una battuta sul wasabi? Non ti è chiaro cosa offende chi, non ti è chiaro perché, non ti è chiaro quando: le norme del parlar bene, del dire nuovo, del dire giusto non ti sono estranee, ma sono così tante, così in movimento, che non riesci a starci dietro, te ne perdi di certo qualcuna, e allora rischi di sbagliare, e se sbagli sei fottuta. Hai deciso così di star ferma, libera dal peccato, al sicuro da ogni tentazione, inclusa quella di metterti dalla parte di Michelle Hunziker, sebbene non sopporti “Striscia la Notizia” e le barzellette sui cinesi ti imbarazzino e la parte peggiore di te sogna un potere inquisitorio inibitorio che s’impossessi delle persone e le esorti a dire solamente cose che non ti scocciano. Non vuoi seccature, però non vuoi rinunciare ai turbamenti. E nemmeno a Woody Allen.

 

Nel suo nuovo libro, “Senza cerniera” (Bompiani), Erica Jong racconta d’essere contenta di avere una figlia come la sua, che le dice: “La tua generazione non era abbastanza diretta, eravate troppo gentili. Noi non abbiamo il tempo di esserlo se non lo sono con noi. Mandali affanculo”. A te l’idea di mandare tutti a quel paese alletta, ma tutti include anche Woody Allen, quindi non si può fare. Non capisci perché la figlia di Erica Jong, Molly, schifi così tanto la gentilezza e, soprattutto, come possa dire che gente che ha fatto gli anni Settanta sia stata troppo morbida. Cara Molly, a quel tempo si sparava per strada, ci si menava per un principio, talvolta persino per un romanzo, ci si insultava sfregiandosi la faccia, non indicando a 25 mila follower l’impresentabile del giorno così che quelli vadano a scrivergli che deve morire, si deve vergognare, eccetera. Cara Molly, studia

 

Forse è solo una questione di nemici. Quelli di questo tempo, a volte, ti sembrano innocui, prossimi al tramonto: Michelle Hunziker, le battute, le statue, i vecchi porci, le copertine dei settimanali, i direttori maschi. Talvolta, provi per loro compassione. Però la compassione è grigia e il grigio non è ammesso: devi scegliere il bianco o il nero. È l’assertività che t’ha stancata, e ti fa preferire l’obbedienza, l’acquiescenza, la quiete, la stasi, l’attesa, la Dc. I tuoi amici dicono sempre più spesso: mi manca la Prima Repubblica. Quando lo dicono, pensi a “Canzone delle osterie di fuori porta” di Guccini e pensi che sia troppo presto per dirsi già così tanto sconfitti, ti sembra che siamo scomparsi tutti troppo presto, che la comunicazione è diventata un tribunale supremo e tu non lo vuoi accettare, perché tu sei hegeliana, in fondo, come Hegel pensi che il tribunale supremo sia la storia mondiale, e lo pensi perché vorresti essere giudicata dopo morta, non tutti i giorni, sotto un tweet. Sai cosa gliene frega a Twitter di Hegel? Niente. E infatti eccoti qui, sei diventata un marito che non sa divorziare, va in vacanza in posti terribili ed è così in apnea che si dimentica di sbuffare: fai di tutto per non finire sotto processo. 

 

La cancel culture ha fatto cose buone: l’hai detto l’altra sera e ti sei sentita, nel dirlo, molto giovane, presente, avvertita e sveglia. Rivoluzionaria, quasi. Tu, di fianco alla cancel culture. Tu che sei quasi finita al rogo per aver scritto una volta che i maschi in pantaloncini sono orribili da vedere e ti sei presa del “fatti stuprare troia, poi ne riparliamo”, da un centinaio di giovani donne che avevano letto un brandello di un tuo pezzo sul figlio di Grillo. Ma dice Irti che l’obbedienza è la nuova virtù e tu è per obbedienza che hai pensato che la cancel culture ha le sue ragioni, o perché ritieni davvero che possa migliorare questo mondo? È impossibile da stabilire. Sei stata così d’accordo quando Natalia Aspesi ha scritto: “Ragazze che combattete l’insulto delle molestie come se fossero il femminicidio che non è, prendetevi una tregua nella giusta battaglia contro maschi sopraffattori. Se ve la sentiste, potreste affrontare una grande e giusta battaglia, quella appunto contro la morte sul lavoro, la morte di tutti, non solo delle donne e non solo degli italiani”. Mai e poi mai avresti immaginato che una moltitudine di rabbiose con le quali condividi molte cose, avrebbero preso quelle parole come una dichiarazione di guerra, e le avrebbero contrastate anziché accolte. Eppure, hai taciuto. Quando hai sentito certune dire che Aspesi è una vecchia rimbambita fuori dal mondo, non hai reagito. Un anno fa avresti urlato, scritto, twittato, litigato. Stavolta, invece, hai pensato: chi me lo fa fare? Se devi brigare contro tue coetanee che s’adontano contro Natalia Aspesi, vuoi dormire per altre sedici vite. 

 

Ti sei sentita uno schifo, e avresti voluto che le arrabbiate anche si sentissero uno schifo. E invece no, si sono arrabbiate ancora di più. Incredibilmente, Natalia Aspesi divide le donne più di Chiara Ferragni. Ferragni è una femminista impeccabile, mentre Aspesi è una borghese privilegiata che non ha idea di che inferno sia vivere con il gender pay gap, gli assorbenti tassati come beni di lusso, i maschi terrorizzati dalla tua ombra, i vestiti che non ti entrano, le copertine di Vanity Fair piene di corpi non conformi e però i vestiti nei negozi che continuano a mortificarti il culo se lo hai più largo di una M. Ad Aspesi è richiesto di riformulare ed eventualmente pentirsi, mentre a Ferragni si tributano onori. La ragione è semplice: Aspesi offre un contraddittorio, Ferragni un’acquiescenza. Con una ragioni, con l’altra stai. 

 

Di Ferragni ci piace il fatto che non sbaglia mai: stare dalla sua parte non costa nessuna fatica, se non alzare gli occhi al cielo quando il Codacons la accusa di mercificare Botticelli. Ferragni è un’obbediente, tutto quello che lei dice raccoglie le istanze generali, i flussi macroscopici, i desideri comuni. Fa bene: è il suo lavoro. Semplifica. Si scrive sulla mano #zan e questo ci basta a capire che lo Zan è un decreto giusto e affidabile. La rivoluzione non è più un fatto dialettico, non passa per la sintesi di posizioni diverse, persino in contrasto: passa per la loro conformazione, che è un processo di livellamento e quindi di cancellazione. Berlinguer scriveva che le rivoluzioni borghesi passano di successo in successo: “I loro effetti drammatici si sorpassano l’un l’altro, gli uomini e le cose sembrano illuminati da fuochi di bengala, l’estasi è lo stato d’animo di ogni giorno”. Così sono le battaglie di internet, quelle di chi s’indigna per pensiero non conformi – perché qua vogliamo i corpi non conformi ma guai a non pensarla tutti nello stesso modo, giusto? 

 

Se Aspesi mi tira le orecchie io non la devo ascoltare, non la devo discutere: devo dire che è una vecchia rincoglionita che non ha idea di cosa significhi mangiare all’all you can eat, e poi la devo archiviare. Le battaglie dei cancellatori ti inducono all’obbedienza, ti dicono: pensala così e ti lascio stare, pensala diversamente e ti scatenerò addosso una furia cieca di centinaia di sconosciuti che di te non sanno altro che quello che io dico di te e cioè che sei nazista. Sicura? No, è un giudizio impietoso. Quindi vuoi che i cancellatori riparino questo errore, si pongano il problema del perché, in nome loro, moltissimi stronzi parlano di bavaglio anziché di confronto.

 

Scriveva ancora Berlinguer che le rivoluzioni proletarie criticano continuamente loro stesse, “interrompono a ogni istante il loro proprio corso, ritornano su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo, si fanno beffe e in modo spietato delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi”. Ferragni, che proletaria non è, nell’incarnare ogni giorno una giusta battaglia, ovverosia nell’incaricarsi di uno slogan al giorno, produce in chi la osserva e segue quell’estasi tipica delle rivoluzioni borghesi di cui parlava Berlinguer. 

 

Aspesi, invece, ci ha sottoposte al metodo proletario e ci ha detto: sicure che stiamo, state facendo bene? Possibile che nessuno di questi neo coniatori di princìpi, etiche, pratiche, ideologie, pensieri, disintossicazioni e destrutturazioni sia mai mosso dal dubbio di aver sbagliato qualcosa? Possibile che ad Aspesi si contestino virgole, desinenze, persino lettori, e ai cancellatori e cancellettisti, invece, nessuno rimette mai la responsabilità di alimentare sciami di odiatori da tastiera e moralisti della prossima ora? 

 

Possibile che a nessuno venga il dubbio che il problema non è che non si può più dire niente, ma che presto nessuno avrà più voglia di dire niente, tanti e tali sono i rischi, le fatiche, gli insulti che deve sopportare chi lo fa? Stare zitti è il nuovo sesso, delle antiche rabbie non rimane che un tweet o qualche gesto: vorrei che a qualcuno dispiacesse. 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.