Un Foglio internazionale

Abbiate pietà per il francese. Basta massacrarlo con l'ideologia

Fare della lingua di Molière il teatro di battaglie ideologiche, perché sarebbe stantia, apre degli abissi che non sono semplici perplessità

Giurista, sociologo e politologo di formazione, Vincent Lamkin è specialista nel campo della comunicazione istituzionale e della pianificazione strategica. Ha lavorato per Publicis e oggi dirige l’agenzia di comunicazione Comfluence. Sul sito del mensile Causeur è intervenuto sulla querelle attorno alla cosiddetta “scrittura inclusiva”, difesa dalle femministe radicali per promuovere “l’uguaglianza di genere”. Tale scrittura, a scuola, è stata messa al bando a inizio maggio dal ministro dell’Istruzione Jean-Michel Blanquer, perché, secondo le sue parole, “rovina” la lingua francese. Secondo Lamkin, fare della lingua di Molière il teatro di battaglie ideologiche, perché sarebbe stantia, apre degli abissi che non sono semplici perplessità. 

  

L’uguaglianza tra donne e uomini non c’entra nulla in questo caos. Ci sono talmente tante donne che hanno fatto della lingua francese il veicolo della loro emancipazione e della loro singolare identità che è strano e offensivo per loro di vedervi la persistenza di una subdola dominazione maschile. Che il maschile serva grammaticalmente a fondere, in un genere “neutro”, il genere umano, sta sullo stesso piano dell’utilizzo della parola “uomo” – che si riferisce a homo sapiens, a prescindere dal sesso, ma designa allo stesso tempo l’essere umano di sesso maschile. Questa convenzione non aliena in alcun modo la donna in una subumanità infeudata all’ordine maschile. Una tale fantasia isterizza la lingua che è, al contrario, la sede della ragione. Al contrario, possiamo notare nella lingua così com’è un omaggio a una forma di ubiquità femminile. In un certo senso, la donna può abitare il femminile e l’umanità generica. Essa può dire: “Sono felice di essere con voi questa sera, e siamo tutti felici, credo, di essere assieme”. La lingua propone dunque degli equilibri sottili che rientrano più nell’equità che nella sciocca uguaglianza. Sarebbe altrettanto assurdo torturare quei nomi epiceni che non hanno il maschile (sentinella, vedette, vittima), col pretesto che bisogna femminilizzare quelli che non hanno il femminile. “Ho sempre onorato quelli che difendono la grammatica e la logica. Ci si rende conto cinquant’anni dopo che hanno scongiurato dei grandi pericoli”, scriveva Proust, ignorando fino a che punto la sua frase sarebbe diventata profetica. Se la lingua deve diventare la sede di tutte le lotte sociali, stiamo vivendo in questo momento le premesse di un saccheggio in piena regola. Perché, effettivamente, fermarsi a questo punto. Cosa si può fare per i non binari o i transessuali? Non meritano forse una loro specifica identità di genere “non binaria” incisa nella lingua, visto che sono calpestati da questa fottuta, vecchia e polverosa lingua francese? E perché non spingersi più lontano nella denuncia delle diseguaglianze che sgorgano dalla lingua: l’uomo è l’umano; donna, etimologicamente, rimanda all’allattamento e al parto. Da un lato, dunque, gli uomini captano l’essenza del genere umano nella loro denominazione, dall’altro, le donne sono ridotte attraverso questo significante a una funzione materna. Cambiamo tutte queste denominazioni appartenenti a un’altra epoca, perché oggi va di moda il vocabolario “etnicizzato”, “basato sul genere”, purificato. Fino a dove bisognerà spingersi nel saccheggio della bellezza della nostra lingua? La scrittura inclusiva assomiglia all’abbruttimento dei paesaggi, quando vengono dimenticati dietro gli utilizzi dei nostri spazi. Questo approccio puramente funzionale della lingua, che fa eco a delle rivendicazioni sociali, la impoverisce terribilmente. Si iscrive, in un certo modo, nella cultura dell’sms e nella promozione implicita di un globish mondializzato (la lingua inglese, dove il genere non è segnato negli articoli e nei participi passati, semplifica il “problema”). E’ grottesco che vengano organizzati dei dettati di scrittura inclusiva, in un momento in cui la padronanza della lingua non è mai stata così pietosa. Poco importa che ci siano degli errori, a patto che il dogma inclusivo venga rispettato. La lingua è la sede dell’immemoriale. Essa costituisce una forma di sacralità, ossia di trascendenza. Ha a che fare con la Legge e la filiazione dei saperi. Essa esprime un principio di autorità che si impone a tutti e attraverso cui impariamo a fare società. La lingua unifica, raduna, apre. Non divide. Lasciamo l’ultima parola al saggio Jean-François Revel, che fu anche il marito della frizzante Claude Sarraute: “La società francese ha fatto progressi verso l’uguaglianza dei sessi in tutti i mestieri, tranne in quello politico. I colpevoli di questa vergogna credono di autoscagionarsi (ne sono abituati) torturando la grammatica. Hanno trovato il sesamo demagogico di questa operazione magica: far avanzare il femminile per non aver fatto avanzare le donne”. (Traduzione di Mauro Zanon)

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