Frida Khalo, "Autoritratto con collana di spine" (Ansa)

Il foglio del weekend

Siamo tutti femmine

Nadia Terranova

E il maschio? E’ solo “un incidente biologico”. Lo trovate nell’ultimo torrentizio saggio sulla transessualità contemporanea. Viaggio tra i libri scritti da donne fra i trenta e i quarant’anni. Molti sono come pugni al cuore

Siamo tutti femmine. Tutti i libri peggiori sono stati scritti da femmine. Tutti i grandi furti di opere d’arte degli ultimi trecento anni sono stati commessi da una femmina, da sola o insieme ad altre femmine. Non esistono bravi poeti femmine, semplicemente perché non esistono bravi poeti. Un elenco di cose inventate da femmine comprenderebbe: gli aeroplani, i telefoni, il vaccino per il vaiolo, il ghosting, il terrorismo, l’inchiostro, l’invidia, il rum, il ballo di fine anno, la Spagna, le automobili, le divinità, il caffè, il linguaggio, la stand up comedy, ogni genere di nodo, il parcheggio in doppia fila, lo smalto per le unghie, la lettera tau, il numero zero, la bomba H, il femminismo e il patriarcato”. L’incipit di Femmine, il breve e torrentizio saggio di Andrea Long Chu pubblicato da Nero nella traduzione di Clara Ciccioni, elogiato come lo studio rivoluzionario sulla transessualità contemporanea, catapulta il lettore nella sua tesi di fondo: siamo tutti femmine, anche i maschi, soprattutto loro. Rifacendosi a Valerie Solanas (“Il maschio è un incidente biologico”, da Manifesto SCUM), Long Chu sembra averla divorata e risputata fuori dopo lunga intersecazione-ossessione (“Da tempo Valerie mi catturava con i suoi desideri.

 

Oggi vive nella mia testa, come un superego che fuma una sigaretta dietro l’altra: dispotica, esigente, impossibile da soddisfare, ma sempre pronta a divertirsi”). Ciò che l’autrice dichiara di condividere con Solanas (“una predilezione per le affermazioni indifendibili”) si mescola a un terremoto di apodittiche dichiarazioni scritte sulla propria esperienza, a partire da quando Long Chu decise di cambiare sesso comprando una vagina – o forse dalla propria nascita: “Siamo tutti femmine, e tutti odiamo esserlo”. Femmine, irritante quanto emblematico, incondivisibile quanto innegabilmente contemporaneo, va letto per la corposità delle risposte che suscita, per l’ondata di rabbia con cui vi si può opporre. Dialoga, per vie contraddittorie e aspre, con un altro saggio che va letto per capire una certa direzione di alcuni femminismi, edito da Tlon nella traduzione di Laura Fantoni, Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne, in cui Jude Ellison S. Doyle, giornalista newyorkese, postula l’oscuro orrore come essenza delle donne (Chu Long, per altro, è citata esplicitamente).

 

 

Doyle dedica la sua enciclopedica rassegna alla figlia, augurandole che “possa essere feroce”, parte dal presupposto che “la donna è sempre stata un mostro”, quindi processa personaggi mitologici distruttivi come le sirene e le furie, biblici come la regina lussuriosa ubriaca del sangue dei santi, storici come Cleopatra ed Elena (colpevoli di guerre e devastazioni), cinematografici come la protagonista dell’Esorcista, letterari come le creature di Mary Shelley e Shelley stessa. Il saggio è diviso in tre sezioni, Figlie, Mogli e Madri, ovvero i tre ruoli imposti dalla società patriarcale. Ma è sempre e proprio così che si percepiscono le trenta-quarantenni di oggi? Al di là di condanne apocalittiche e dichiarazioni estreme, di inni alla scorrettezza e dell’indicazione del modello della ragazzaccia come insistita possibilità di autoaffermazione, una biografia profonda del corpo femminile scorre sotterranea nella letteratura. Più che ai saggi, cui va riconosciuto senz’altro il merito di agitare rissosamente le acque e postulare domande, è in quel finto fiume tranquillo, in quel genere ibrido tra il romanzo e il memoir, che, oggi, troviamo laviche tracce della vita segreta delle donne che non fanno notizia, dei corpi che si interrogano senza clamore, procedendo per sussulti e difese, asserragliamenti ed espansioni. Appunti per me stessa di Emilie Pine, tradotta da Ada Arduini per Rizzoli, è un pugno al cuore, eppure non racconta che la quotidianità di una donna che avanza e subisce, si contrae e si espande, attraverso le sfaccettature degli accadimenti della prima metà della sua vita: il rapporto con un padre problematico, gli attacchi di panico, la malattia e la paura della morte degli altri, il desiderio, il ciclo mestruale, la violenza, il desiderio di maternità, l’interruzione di gravidanza, l’accettazione della propria infertilità.

 

E l’amore: questa parola coraggiosamente desueta che irradia le ferite dimostrando che la rivoluzione più radicale, a volte, è la confortevolezza, perché nulla è più femminista del cercare alleanze, dar loro spazio, resistere e farle durare. Il compagno di Emilie è l’unico a non essere chiamato per nome, in una storia personale che non ha paura di tirare in campo tutti gli affetti per farli fuori, che poi è il modo che la letteratura ha di farli vivere per sempre: lui è R., e si salva da tutto, anche dal romanzo, perché esiste nella vita, e il fatto che il loro rapporto non sia così conflittuale da poter finire in una bella storia è ineludibile e commovente (“Ci guarderemo invecchiare, vedremo invecchiare il nostro rapporto. E quell’istante inatteso mi ha reso più felice di quanto potessi immaginare. Nel nostro futuro vedo una vita, una vita condivisa. Una vita fantastica. è difficile tradurre in parole, su una pagina, un grande amore e una vita fantastica. Suona così banale, rastrellare le foglie e sorridersi perché ci si capisce, ma è nei momenti di ogni giorno che spesso si svelano le gioie dell’amore e la sua profondità.”). In Irlanda, Appunti per me stessa ha vinto l’Irish Book Award, il maggior riconoscimento letterario nazionale. Un destino analogo è toccato a un altro libro potentissimo, Transito di Aixa de la Cruz, pubblicato da Giulio Perrone Editore nella traduzione di Matteo Lefèvre. Vincitore in Spagna del Premio Euskadi de Literatura en castellano, questa incursione sismica e sincopata nella formazione di una scrittrice poco più che trentenne sottintende con chiarezza quali siano i riferimenti saggistici della generazione nata alla fine degli anni ottanta, Testo Junkie in primis (“Paul B. Preciado si faceva ancora chiamare Beatriz ed era il mio profeta”), e può considerarsi emblematico delle “sorelle minori” di Pine: dieci anni di meno, la stessa anarchica assertività nella ricerca identitaria, la spudoratezza come lingua reattiva alle costrizioni, la fluidità come resistenza necessaria ai ruoli.

 

Rispetto alla generazione precedente, è più deciso il posizionamento sulla pratica sessuale come l’aspetto più sfruttabile nell’esibizione del proprio percorso, ed è più esplicita la volontà di attualizzare i modelli: “Dove in principio fu Susan Sontag – le sue teorie sull’ispirazione pornografica degli abusi e le mie possibili repliche ai suoi pregiudizi di femminista puritana – ora scoprirò corpi reali, e lo stesso succederà con le testimonianze delle vittime, ancora più reali e classificate solo a metà perché non abbiamo abbastanza stomaco per ciò che il potere fa in nostro nome”, scrive de la Cruz a proposito delle immagini di Abu Ghraib, oggetto della sua tesi. Il suo romanzo confessionale nasce da quel lavoro sui corpi e sulla comunicazione della violenza, dal fatto che in guerra i soldati scambiavano fotografie belliche in cambio di iscrizioni a portali hardcore porn e che c’erano uomini statunitensi che si masturbavano sull’immagine di una ragazza irachena che aveva perso una gamba e le sue mutande. Il presente invade e investe la vita di una ragazza che ha già scritto romanzi e saggi ma consacra la propria autorialità incedendo in queste pagine, lasciandovi fluire il tentativo di comprimervi tutte le sue storie e tutte le sue contraddizioni alla ricerca dell’unica costante fissa: la capacità di spostarsi e spostare con sé i risultati della propria esperienza (Cambiar de idea è il titolo in lingua originale).

 

La cifra di Aixa, narratrice e protagonista della sua vita, è quella di una ragazza in transito che ammette: “Finirò per dare ragione a Susan Sontag e per trovare dei parallelismi tra le celle di Guantánamo e le nostre camere da letto eterosessuali; cambierò schieramento critico, innaffierò i miei bonsai con il sangue del mio endometrio, diventerò un’antenna che capta e depura le storie di terrore che la circondano, diventerò radicale e adulta”, e tutto a partire dall’incidente che frantuma le ossa di un’amica. Perché un corpo spezzato è più vero di uno integro, “i corpi sono fatti per essere rotti”: de la Cruz scrive il suo primo racconto quando sente che le sue cicatrici stanno scomparendo e scrive questo libro dopo aver ascoltato la lacerazione improvvisa delle ossa altrui, è allora che sente come la sua più profonda ispirazione nasca dallo sguardo sui corpi. La costruzione della sorellanza, per lei, passa attraverso la sua distruzione: Aixa non vuole lottare per le sue sorelle, vuole smettere di essere una sorella. Come Virgine Despentes, pensa che tutte le cose divertenti sono virili, ma anche su questo si concede di cambiare idea, attraverso una comunicazione raggiungibile attraverso il sentimento del dolore dell’altra oppure la conquista del suo corpo. Aixa scopre che le altre ragazze non sono una minaccia solo quando intuisce che può sedurle, portarsele a letto, e così spezzare l’automatismo patriarcale che induce al sospetto reciproco e alla rivalità.

 

Il periodo più intenso di fluidità viene raccontato così: “Per anni ho cercato di emendare la mia storia in questo modo, seducendo quelle che mi scannerizzavano dall’alto in basso come se misurassero la forza di un nemico, perché il sesso permette che il potere cambi bandiera e perché mi riusciva molto bene”. E, retroattivamente: “Voglio tornare indietro e scoparmi tutte quante le mie compagne di classe che mi hanno coperto di insulti a scuola”, non per vendetta ma per epurare e raddrizzare la propria vita. Anche la resa dei conti con il difficile rapporto con il paterno è innescata, in Transito, dall’esperienza altrui. Un’amica comunica di essere incinta nel gruppo WhatsApp di vecchi compagni di palestra, e alla domanda “Chi è il padre?” risponde che il padre non c’è. Aixa de la Cruz è cresciuta senza un biopadre, ma da un certo punto in poi la madre ha avuto un compagno che ne ha fatto le funzioni. Bella di papà, un saggio da poco uscito per Blackie Edizioni nella traduzione di Veronica Raimo e Alice Spano, torna sulla questione con un punto di vista non lontano da quello delle giovani saggiste qui citate. Katherine Angel si interroga sulla possibilità di affrancarsi dalla schiavitù della definizione di sé attraverso il rapporto con il maschile generativo, con riferimenti che vanno dal pop al letterario e con la consapevolezza di un’aggressività specifica della scrittura, il luogo per eccellenza dove si può smettere di essere compiacenti. Il luogo in cui, in modo radicalmente diverso l’una dall’altra, tutte queste autrici si sono messe al mondo da sole, dato che per ciascuna di loro valgono queste righe: “Attraverso la scrittura creo un genitore, un’alterità, il cui volto rimane imperturbabile e che non ha bisogno del mio falso sé”.

 

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