Cosima Scavolini/Lapresse

Il sì al mondo dei grandi autori spiegato da Leonardo Colombati

Marina Valensise

Leggere il suo ultimo libro significa penetrare le leggi della narrativa e catturarne il mistero. Da Flaubert a Joyce

Leonardo Colombati ha letto tutti i libri del mondo. Dalla Bibbia, ai mistici ebraici, dalla Divina Commedia all’Ulisse di Joyce, passando per Shakespeare, Cervantes, Doestoevskij e Proust, non c’è autore della letteratura universale che sia per lui un mistero. Ha letto tutto, ha ripensato a tutto quel che ha letto e in Scrivere per dire sì al mondo. Quello che i grandi autori ci insegnano sull’arte e sulla vita (Mondadori, 304 pp., 20 euro) l’ha trascritto per la nostra gioia con una bulimia straripante e contagiosa, che illumina ogni nodo, ogni variante, ogni minima vibrazione che serve a trasformare un ammasso di parole in un racconto, un romanzo, una pièce di teatro, per farne un capolavoro immortale. E’ difficile seguire passo passo il metodo Colombati, che prima di essere uno scrittore in proprio, autore di romanzi pregevoli sebbene non riconosciuti come meriterebbero, è un lettore vorace e un esegeta implacabile che si diverte a braccare i suoi autori di culto, per prenderli di sorpresa sino a infilzarli colle frecce acuminate della sua penna, per estrarne il succo, e cibarsi della loro linfa vitale.

 

Così, il suo argomento  è ben di più che un esempio eccellente di attenzione ai testi. In realtà è la confezione di un vademecum prezioso sia per chi i libri si diverte a leggerli,  sia perché aspira a confezionarli. E infatti leggere questo libro di Colombati che parla dei libri dei grandi scrittori, è come camminare sulle sue tracce per scivolare dentro i capolavori e studiarne il miracolo di fabbricazione, la  tessitura segreta che sfida il tempo e l’insignificanza della vita. Significa penetrare le leggi della narrativa e catturarne il mistero. Prendete per esempio il modo in cui Colombati lettore s’impossessa del Colombati scrittore per appropriarsi del periodo ternario di Gustave Flaubert. Sulla scorta di Albert Thibaudet, eccolo esporre il modo in cui l’autore di Madame Bovary strutturava la sua frase con ritmo crescente o decrescente, a partire da un unico elemento, aggiungendovene altri due, fino a culminare in una frase triadica, che suggellava il tutto sublimandolo. Esempio: “Il ricordo dell’amante tornava a lei con una vertiginosa forza di attrazione; vi gettava la sua anima, trasportata da un entusiasmo nuovo; e Charles le pareva così staccato dalla sua vita, cosi definitivamente assente, così annullato, come se fosse vicino a morire e agonizzasse sotto i suoi occhi”. Lasciatevi irretire dal modo in cui Colombati racconta come James Joyce, esattamente cent’anni fa, rivoluzionò il rapporto tra l’intreccio e la fabula, mettendo in scena il monologo interiore di Molly Bloom, la moglie fedifraga e non poco ninfomane del povero pubblicitario Leopold Bloom, di cui narrò un’unica giornata per restituirne l’epica triviale della coscienza contemporanea, che in balia di desideri nascosti e pulsioni segrete durante un dormiveglia senza fine razzola a briglia sciolta nell’inconscio, fra il pensiero del mestruo, il ricordo del suo amante che aveva il gusto di farle l’amore col ciclo, il frammento del lungo bacio del suo Odisseo fra i rododendri di Howth e l’esplosione dei sensi…

 

Niente resiste alla passione di Colombati, all’allegria del lettore vorace, alla destrezza dello scrittore avvertito che ti trascina in un’orgia di parole, citazioni, pensieri, fino a confondere tutto, epoche, autori, personaggi, esperienze, tradizioni, in una festa vertiginosa, che serve solo a celebrare la vita e la vittoria della vita sul dolore, la malattia, la paura e la morte, che solo  con la scrittura si realizza, e solo con l’artificio della letteratura diventa seconda natura.
 

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