(foto Unsplash)

“Il libro delle lacrime”, autobiografia umida e destrutturata

Mariarosa Mancuso

 A qualcuno è venuto in mente di tracciare tutti i luoghi in cui ha pianto

Un modo per scrivere l’autobiografia – tutta o in parte, ormai l’età media è scesa parecchio rispetto a quella ragionevole o sensata – è farla a pezzettini e legarla alle cose, solide o meno solide. Un’autobiografia “destrutturata”, come lo chef che smonta il piatto tradizionale, e il cliente si ritrova sul piatto gli ingredienti scomposti. Ha il suo campione – non per amore ma per forza – in Sergej Dovlatov. Nel 1978 riuscì a fuggire dall’Unione sovietica, agli ebrei fu concessa una finestra. Poteva portare con sé solo un bagaglio: partendo dagli oggetti stipati ricostruisce in La valigia vita e umiliazioni patite (con molto grottesco dittatoriale, che fa genere a sé).

Andrea Bajani ha scritto per Feltrinelli Il libro delle case, ben posizionato per passare dalla dozzina alla cinquina dello Strega. Casa dopo casa – dei Parenti, dell’Adulterio, e molte altre – racconta i metri quadrati e gli arredi, attorno a un “Io” con la maiuscola, trattato da personaggio. Heather Christle ha scritto Il libro delle lacrime (appena uscito dal Saggiatore): cinque anni fa si era messa in testa di tracciare la mappa di tutti i luoghi in cui aveva pianto. Appunto un’autobiografia, umida e destrutturata. 

Se al lettore capitasse di commuoversi, leggendo certe pagine del Libro delle lacrime, sappia che anni dopo le lacrime versate mostreranno al microscopio cristalli salini. Sostiene la fotografa Rose-Lynn Fischer, anche lei appassionata della materia, che le lacrime di lutto son diverse da quelle di cipolla: offre ampia documentazione della sua teoria nel volume illustrato Topography of Tears. Heather Christle, la prima a cominciare il gioco, le cerca addirittura – ridotte a macchiolina – nei vecchi libri, o sulle vecchie lettere. 

Tra le fissazioni e le ossessioni letterarie il passo è breve (un appunto che sempre più spesso vien da fare a certi romanzi che atterrano sulla scrivania sta proprio in questo: raccontano quel che vedono, dal proprio ombelico al paesello, senza metterci – non si pretende una grande ossessione capace di trasfigurare il mondo – almeno un marcetta in più). “Il libro delle lacrime non viene venduto assieme a una confezione gigante di fazzoletti perché Heather Christle è la prima a stufarsi dei suoi pianti – alcuni peraltro degni di nota, come la volta che pianse mentre faceva l’amore, non per l’amore né per l’amante, ma perché aveva scelto per colonna sonora una musica particolarmente commovente. Altre volte, confessa, si sveglia incerta se “piangere, scrivere poesia o scoparsi qualcuno” – speriamo la poesia no, giacché di mestiere fa la poetessa, dovrebbe sapere che non è acqua di sorgente. 

 

Inventa la parola “frignoteca”, per lo scaffale dove ripone i libri e l’archivio di curiosità che a poco a poco soppiantano il progetto iniziale. Nel bene e nel male. Siamo subito informati che le lacrime delle donne bianche possono fare tanto male alle persone di colore. Che le bambine hanno modi e motivazioni articolate per seppellire, piangere, a volte disseppellire le bambole. Che in Giappone si possono noleggiare uomini che ti accarezzano la testa mentre piangi. Che piangere fa sentire meglio, ma deforma i lineamenti e fa la faccia orrenda. Che la stanza più adatta al pianto è la cucina, seguita dalla camera da letto. Abolirle sarebbe un bel passo avanti verso la felicità.

Joan Didion consiglia il rimedio per frenare le lacrime: infilare la testa in un sacchetto di carta. Il poco ossigeno frena il pianto, sostiene. Alla spiegazione scientifica, si aggiunge potente l’aspetto psicologico: “E’ difficile fingersi la Cathy di Cime tempestose con la testa in un sacchetto del supermercato”.

Di più su questi argomenti: