Foto: Christian Lue

Quel che tiene insieme le stelle del sogno europeo

Guido De Franceschi

Il libro di Aleida Assmann fornisce gli ingredienti per non perdere la forza di una storia comune

"Un mito che rafforzi l’identità nazionale può fondarsi sul passato oppure orientarsi verso l’avvenire”, scrive Aleida Assmann nel suo libro “Il sogno europeo. Quattro lezioni dalla Storia” (Keller, 238 pagine, 17 euro). Quindi, se la nazione americana non è “tenuta insieme da una memoria comune, ma da una comune visione” e gli americani, come disse Leslie Fiedler, sono “abitanti di una comune utopia e non di una storia comune”, la costruzione di un’identità sovranazionale europea si rivolge invece al passato. Il sogno europeo, infatti, è nato dal risveglio da un incubo e cioè dal tentativo di un nuovo inizio dopo due Guerre mondiali e l’Olocausto. E ha poi dovuto attendere fino a che, nel 1989, si è scongelata anche l’altra metà del continente.

 

Spesso, peraltro, la possibilità di un sogno europeo sembra, a sua volta, un sogno. Guardando la bandiera europea, scrive Assmann, “ciò che salta sempre più all’occhio è lo spazio vuoto al centro dell’emblema […]. Perciò dobbiamo cominciare a chiederci seriamente: che cosa esattamente tiene ancora insieme le stelle, che cosa impedisce loro di uscire dall’orbita e perdersi nello spazio?”. Nel suo libro non ci sono ricette, ma ci sono gli ingredienti. E sono ingredienti esaltanti. Infatti, le quattro lezioni che l’Europa ha imparato dalla storia sono il mantenimento della pace, la democratizzazione, la cultura della memoria e i diritti umani e cioè quattro cose che possono sembrarci incrostate di insopportabile retorica solo perché siamo incrostati di insopportabile stupidità.

 

L’elemento più delicato è comunque la memoria, che, dice Assmann, andrebbe affrontata con “narrazioni condivisibili” prima di tentare la carta di una “narrazione condivisa”. E’ un percorso difficile, perché ventisette miti nazionali hanno cercato di accomodare il passato secondo le necessità del proprio orgoglio, che coincide con la pretesa di non avere né colpe né debiti (“l’essenza di una nazione sta nel fatto che tutti i suoi individui condividano un patrimonio comune, ma anche nel fatto che tutti abbiano dimenticato molte altre cose”, diceva nel 1882 Ernest Renan). Oltretutto, oblio e ricordo hanno equilibri delicati e perfino l’istituzionalizzazione della memoria può diventare un problema (“come possiamo salvaguardare il potenziale critico della cultura della memoria, ed evitare che la pratica del ricordare si riduca a un rituale pietista, a buon mercato e senza alcun seguito?”).

 

In ogni caso, il passato non è ancora passato e non è un caso che proprio la Polonia, che il Novecento ha attraversato con passi così pesanti, sia oggi uno dei paesi più diffidenti verso una piena adesione a quel sogno dell’Unione europea, che non ha ancora imparato a raccontare se stesso. Anche perché, come ha scritto qualche giorno fa Wolfgang Münchau, la lingua franca in cui è stata sviluppata la narrazione dell’Ue è l’inglese, l’idioma meno eurofilo del continente. Ma Aleida Assmann scrive in tedesco. E, in effetti, un discorso sulla memoria, e quindi sul futuro, dell’Europa è opportuno che parta, una volta di più, dalla Germania.

 

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