Lawrence Ferlinghetti (foto Ap)

Viaggio a North Beach

Il poeta santo

Michele Masneri

Premiata ditta Ferlinghetti. Dietro l’immagine chic, l’editore che mise insieme il gruppo scapestrato della beat generation

Se lo chiamavi beat si imbizzarrivano i cavalli, tipo Frankenstein Junior.

 

Lawrence Ferlinghetti è appena morto, ultracentenario, offrendo un fantastico cliché per le masse che non l’avevano letto; un poeta! (ne nasce uno al secolo, si sa). Una libreria! (quel luogo sempre “da salvare”, come fosse un tempio buddista minacciato dai talebani, e non invece luogo di commerci. Da salvare poi soprattutto da chi non vi mette mai piede). E comunque: poesia, libreria, America (soprattutto America amara, America contestata, yankee go home). Sesso e droga on the road soprattutto da leggere in caldi tinelli Mondo Convenienza.  

 

Che santino perfetto, comprese le origini italiane, e l’arresto come migrante nella Brescia degli antenati. Una storia troppo bella per essere vera. Ferlinghetti io devo essere uno dei pochi a non averlo incontrato. Però conosco abbastanza i suoi luoghi. North Beach: il quartiere degli italiani di San Francisco, meraviglioso cadente centro di tutto. All’angolo con la famosa libreria Citylights, su Columbus Avenue, c’è la prima sede della Bank of Italy fondata da Amadeo P. Giannini, leggendario imprenditore italoamericano che creò la futura Bank of America, primo istituto statunitense: finanziò il Golden Gate Bridge e i cartoni di Walt Disney, e prestò i soldi senza garanzie per ricostruire la città dopo il terremoto del 1906 (nel film “San Francisco”, Clark Gable è tenutario di un localaccio da queste parti).

 

North Beach è il centro anche dell’epica criminale americana: nella prima puntata di “Le strade di San Francisco”, ecco un delitto proprio su Columbus Avenue, non lontano da Citylights (era il periodo in cui la città era talmente delittuosa da dare origini a due epopee poliziesche, questa e quella di “Dirty Harry” cioè poi l’ispettore Callaghan). E poi al caffè Trieste, bar degli italiani, con foto di Scorsese e Pavarotti e Coppola che vi ha scritto “il Padrino” e che ha il suo ufficio e il suo ristorante qualche metro più in là. E i caffè ancor più storici Vesuvio e  Tosca (specialità della casa il pollo-marsala, farcito di ricotta, scaloppina larger-than-life).

 

L’ultima volta che ci son stato, al caffè Trieste, ci ho incontrato Emanuele Bevilacqua – editore, di libri e di giornali, presidente del Teatro di Roma, scrittore, un sacco di cose. Anche esperto di beat generation, ha scritto il libro italiano più venduto sul tema. “Battuti e beati”, Einaudi stile libero. Era il 2017, San Francisco era affluente e arrembante, noi si viaggiava, beati e non abbattuti. Adesso lo rivedo a piazza Navona, in un ristorante che si chiama Camillo, fanno gli avocado toast, c’è il sole, le cameriere sono giovani e trasognate, con un po’ di immaginazione siamo davvero a San Francisco. Almeno facciamo finta.

 

Chiariamo subito questa storia di San Ferlinghetti. “Ma è chiaro. Lui è stato un grande editore. E’ il primo a inventare la poesia tascabile, con l’idea di cambiare pubblico e avvicinarsi ai giovani senza soldi. Fino ad allora quelli non erano considerati ‘veri’ libri, venivano venduti nelle edicole o negli alimentari. Gli unici esistenti erano gli inglesi Penguin, importati però dall’Inghilterra. Improvvisamente con Ferlinghetti arrivano quattro tascabili che rivoluzionano le lettere (ma soprattutto l’editoria) americane: il primo volume della Pocket Poets Series esce nel 1955. E’ un suo testo, ‘Pictures of the Gone World’, il secondo è la raccolta ‘Thirty Spanish Poems of Love and Exile’, nella traduzione di Kenneth Rexroth. Poi ‘Poems of Humor and Protest’, di Kenneth Patchen, e infine ‘Howl and Other Poems’, pubblicato nel 1956, quello che avrà maggior successo. E’ ‘l’Urlo’, il poema di Ginsberg che sorprenderà tutti per lucidità e durezza; tutti ricordano a memoria almeno i versi iniziali: ‘Ho visto le menti migliori della mia generazione di­strutte dalla follia…’. William Carlos Williams, nell’introduzione, scrive che è un poema ‘che fa arrestare’”. 

 

E infatti: nel 1957 una pattuglia della polizia di San Francisco irrompe nella libreria-casa editrice e arresta non Ferlinghetti che non c’è, non Ginsberg che è in Marocco, ma il povero libraio giapponese: a gestire la libreria era infatti Shigeyoshi Murao, un giappo-americano che appare anche in “The Electric Kool-Aid Acid Test” di Tom Wolfe, famoso per bere 12 lattine di Coca-Cola al giorno (“voglio essere ricordato come il coke-sucker”). Il coke-sucker sarà arrestato subito, solo dopo Ferlinghetti. Dunque scandalo e processo, che come sempre sono manna dal cielo per un libro; in particolare per quello, che ai primi tempi non se lo stava filando nessuno.

 

Pausa. Telefono al mio amico Mauro Zanetti Aprile. E’ il re di North Beach. A San Francisco si è trasferito anni fa, via Palermo-Roma-New York, e in pochi anni ne è diventato cultore, scrittore, antropologo, di quella San Francisco in via di sparizione. E’ stato assistente, ufficio stampa, braccio destro di Ferlinghetti. Nel frattempo contagiato anche dal morbo tecnologico –  fa  il “tech evangelist”  di un’azienda (ma la poesia e la tecnologia vanno da sempre a braccetto, qui). Anche Ferlinghetti, che pure deprecava gentrification e arrivo dei barbari, in fondo è stato un fantastico startupper: e del resto North Beach nasce come cittadella di servizi per il primo boom, qui c’erano i bar e intrattenimenti per i minatori della grande Gold Rush del 1848, quella che trasformò il borgo sperduto abitato solo da missionari francescani in capitale del sogno americano.

 

“Non avevo mai avuto il mito di Ferlinghetti”, mi dice Zanetti. “Non ero un suo fan. La prima volta lo vidi entrare in un localaccio qui di North Beach che si chiamava US Original, accanto alla banca di Giannini. Us stava per Unione Sportiva, non United States. Entra questo vecchio signore molto alto. Era molto alto, Lorenzo. Tutti si alzano in piedi ma io non capisco: pensavo che Ferlinghetti fosse morto da anni. Il poeta è accompagnato da una giovane ragazza. Poi quando diventammo amici imparai che si girava sempre, quando passava qualche bella ragazza. E a me questa cosa mi faceva sentire molto a casa, mi riportava molto alla mia infanzia siciliana, perché a San Francisco anche se passa la madonna non si gira mai nessuno”.

 

La sera che ho conosciuto Lawrence era un martedì, me lo ricordo perché si mangiava il bollito irlandese, era giorno delle 3 I (italiani, irlandesi, israeliani), quelle cose che fai quando sei appena arrivato in una città da immigrato e non conosci nessuno. Tutti pensavano che fosse morto, ripeto. Anche in Italia. Gli feci un’intervista, gli piacque molto. Poi nel tempo imparai un’altra cosa: era difficilissimo intervistarlo: odiava i giornalisti. Dicevano in continuazione: lei che è il padre dei beat, e lui detestava questa cosa. Lui non è stato mai infatti un autore beat. E’ stato un editore, quello che li ha messi insieme. E poi un poeta, sì, ma certamente non beat”.

 

Già ma insomma questi famigerati beat com’erano? “Questa era la classica domanda per cui ti mandava a quel paese”. Eh, ma tocca farla. “Lorenzo diceva che di loro lui era l’unico straight, quello che la mattina andava a tirar su la serranda. In generale non amava proprio queste persone: umanamente non gli piacevano, questi tossici, junk, scombinati, mentre lui era molto californiano, solare, vita all’aria aperta, anima italiana”. 

 

Già, ma il gruppone? Bevilacqua, identikit: “Degli scappati di casa. L’unico serio che ha studiato era Ginsberg. Burroughs era più grande di loro, era ricco, erede della famiglia che produceva le macchine per il computo, i precursori dei computer. La Burroughs esiste ancora, si chiama Unisys. Neal Cassady invece era un ragazzotto che rubava macchine. Scopatore. Illetterato. Viveva da vagabondo a Denver. Erano tutti molto fluidi. Scopavano un po’ con tutti e tra loro. Molto diversi tra loro, poi: Ginsberg era ebreo, omosessuale e appunto colto. Gregory Corso era un disperato italiano. Forse Cassady era l’unico completamente etero”. 

 

Zanetti: “Ferlinghetti sosteneva che senza Ginsberg non sarebbero mai esistiti. Ginsberg era una macchina da pubbliche relazioni, aveva un’agenda incredibile di numeri di telefono. Ma Lawrence pure”. E poi Kerouac. “Kerouac l’alcolista, Kerouac che ascolta il bebop nei locali di Harlem e  scrive così, improvvisando e saltando qualche nota. Kerouac e il bilinguismo, cresciuto coi genitori francocanadesi che parlavano francese. Dunque come Conrad, Nabokov, Brodskij, grandi scrittori che hanno imparato l’inglese solo tardi, molto attento alla lingua. Kerouac grande scrittore, che diventa famoso col suo libro più brutto, ‘On the road’. Kerouac che lo pubblica non da Citylights, come hanno scritto in tanti, ma da Vikings. Kerouac che nel ‘57,  l’anno d’oro dei beat, diventa improvvisamente una celebrità”, ricorda Bevilacqua.

 

“Nessun editore lo voleva. Ma tra il ‘49 e il ‘57 cambia l’America. I russi stanno per mandare nello spazio lo Sputnik, dall’altra parte i beat minacciano gli Stati Uniti perbenisti. Il libro esce il 5 settembre del ‘57 e una recensione lo stesso giorno sul New York Times lo incorona  re di una nuova generazione. La sua fidanzata all’epoca dirà: ‘si è addormentato ubriaco, e si è risvegliato famoso’”.  

 

Ferlinghetti tiene insieme tutti, padrino o regista di questo gruppo squinternato. Zanetti: “a Lawrence stava sulle palle la Pivano, che aveva creato tutto il mito beat, che si era fissata con Kerouac e Ginsberg e lui non lo filava per niente”. La Pivano, tasto dolente e buffo di tutta questa storia. Bevilacqua: “lei mi raccontò che Cassady la scorrazzava in giro in macchina, ma non ci fu niente tra loro. Che fu l’unica a non cedergli. Anche se non ci credo molto. Mi ha raccontato una strana storia: che una volta lui la va a prendere, e poi a un certo punto inchioda, le dice scusa, aspettami qui, lei aspetta mezz’ora, e poi lei lo vede saltar giù da una finestra, e lui aggiustandosi i pantaloni rientra in macchina. Era andato da una tizia, ma poi il marito era rientrato a sorpresa”.

 

Questa storia me ne ricorda un’altra: quando Moravia va a San Francisco, sempre in quegli anni, e lì c’è una signora che lo porta in giro e improvvisamente lo molla in macchina per 50 minuti e quando torna gli dice: scusi, avevo la seduta dall’analista, e Moravia racconta stupito che a San Francisco vanno tutti dall’analista: sta nei suoi racconti di viaggio appena ripubblicati da Bompiani. Fine dell’inciso. Ma tornando alla Pivano, altra microstoria. La Pivano stava in California a seguito dell’allora marito Ettore Sottsass, che di ritorno da un viaggio in India si era preso una complicata malattia, guaribile solo al Palo Alto Hospital. Roberto Olivetti, altra dinastia delle calcolatrici, quando la famiglia aveva un centro ricerche in Silicon Valley, gli consiglia quell’ospedale (lo stesso in cui anni dopo sarà curato anche Steve Jobs). Così mentre Sottsass sta nel suo letto d’ospedale la Pivano, stufa, scorrazza per San Francisco e scopre i beat…

 

Ma adesso che succederà? “Lawrence è stato cremato”, mi dice Zanetti,  “e le sue ceneri disperse a Bolinas” (villaggio leggendario e cespuglioso sulla costa, venti miglia a nord, non ci sono cartelli stradali perché gli abitanti li staccano per non avere visite).  “La libreria e la casa editrice andranno alla Fondazione che la gestisce, lui aveva pensato a tutto. C’è una co-proprietaria che è viva e vegeta, c’è un board, la libreria negli anni è andata avanti senza di lui tranquillamente”. Era contento che avesse vinto Biden? “Non se n’è reso molto conto, non  vedeva e non sentiva, non si voleva mettere l’apparecchio acustico che gli avevamo fatto fare”.  

 

Adesso anche Zanetti se n’è andato da North Beach. Riordina le migliaia di foto di Ferlinghetti, e sta pensando a un libro. Ma non se ne va certo da San Francisco. La città in crisi, la città invasa dagli homeless, abbandonata dagli startuppari in fuga dal Covid. Sembra tornata quella delle strade di San Francisco e dell’ispettore Callaghan. “Ma è proprio il momento di venirci, ora. Non di andarsene. I prezzi delle case sono scesi del trenta per cento. Ed è solo una delle tante crisi che questa città ha attraversato. Qualche azienda se ne andrà, pazienza, altre arriveranno. L’anima è rimasta”. Intanto, a North Beach, ha riaperto il caffè Tosca. E resiste l’ulivo piantato per i 100 anni di “Lorenzo” dal Console d’Italia, che si chiama Lorenzo pure lui. Che nostalgia.


 

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