L'intervista della domenica

Una stanza tutta per il comico

Simonetta Sciandivasci

Pigiama Rave, Netflix, l'esagerazione, i permalosi, il sogno del ritiro, la lettura, i ristoranti, Lost in Translation, la petizione per abolire l'ora legale. Conversazione con Saverio Raimondo 

Saverio Raimondo ha un orrido pigiama verde bottiglia con degli ananas disegnati sopra. Ed è persino di seta. Lo so perché gliel’ho visto addosso durante l’ultima puntata di "Pigiama Rave", il programma che scrive e conduce su Rai4 ogni lunedì sera (si può vedere sempre anche su Raiplay), e che ammetto di guardare con scarsa attenzione, concentrata e anzi rapita come sono, tutte le volte, dai suoi pigiami, dagli interni e gli oggetti di casa sua e dei suoi ospiti, collegati con lui da casa loro – per esempio, Costantino Della Gherardesca ha mostrato un copripene in terracotta, o forse era marmo, proveniente da non ricordo quale paese asiatico. Non potendo rischiare di incantarmi sul suo abbigliamento – ricordo che una volta lo avevo visto in fila per un taxi, a Largo Argentina, con un completo beige a quadrettini verdi, osceno e irresistibile – gli propongo di chiacchierare all’antica, al telefono, anche perché casa sua è per me ormai uno studio televisivo, un palcoscenico, e non me la sento di salirci, sono timida.

A parte il guardaroba, di lui mi impressionano la duttilità e la discontinuità. Ha fatto uno spettacolo di stand up comedy su Netflix, "Il Satiro parlante", dove sacramentava contro qualunque cosa, persino gli aerei e gli attori di teatro che chiedono al pubblico di tenere il telefono spento – “se io accendo il telefono significa che tu non fai bene il tuo lavoro” – e naturalmente contro la Rai, e immediatamente dopo è stato ospite fisso di “Porta a Porta”. Ha condotto un programma con Antonio Razzi e poi è finito a “Le parole della settimana” di Gramellini. Una volta è stato censurato dalla Rai, quando faceva il Dopofestival e le puntate vennero rimosse da Raiplay, ma solamente per qualche ora. Contro di lui mai uno shitstorm. Mai un’indignazione.

Non sarà un democristiano?

Mi sono perso un conclave? Non erano impresentabili i democristiani?

Non dopo la variante grillina.

Ah già, i grillini sono riusciti a farceli rimpiangere.

Lei ha detto che di loro non si parla male perché non si parla male degli handicappati. E nessuno l’ha portata in tribunale con l’accusa di abilismo. Sono scioccata.

Magari succederà adesso, nel qual caso la ringrazio.

La difenderò.

Grazie ma non c’è bisogno. Sono poco istintivo e penso parecchio a quello che scrivo, prima di recitarlo lo studio bene, quindi potrei difendere qualsiasi mia battuta davanti a un giudice. Credo sia un’attenzione dovuta. Ha ragione Calcutta quando dice che lo sforzo più importante deve farlo chi si esprime: se ci impegniamo a scrivere meglio, diminuiscono le indignazioni. Anziché lamentarci che non si può più dire niente, dovremmo imparare a dire meglio le cose.

Ma è vero o no che non si può più dire niente?

A me sembra che la libertà di espressione sia persino aumentata, perché sono aumentati gli spazi in cui esercitarla. Naturalmente, in ciascuno di essi ci sono delle regole. Quello che è indicibile su Rai1 è dicibile su Netflix. quello che non si può scrivere su un quotidiano, si può scrivere su Facebook. Su Instagram non si possono mostrare i capezzoli ma su Mediaset sì. Basta spostarsi. E così la libertà di parola si associa a quella di movimento.

È per questo che lei fa così tante cose?

Ho ragioni più prosaiche. Primo, il guadagno. Secondo, l’inquietudine.

Insomma la notizia della dittatura del politicamente corretto è fortemente esagerata?

In Italia non è mai esistito il politicamente corretto perché non è mai esistito nemmeno il politicamente scorretto. Senz’altro c’è una suscettibilità molto diffusa, ma è pure vero che gli italiani sono sempre stati permalosi e ora i megafoni digitali hanno peggiorato tutto. Faccia caso a un dettaglio: succede quasi sempre non che una persona ha mancato di rispetto a qualcuno, ma che qualcuno che s’è offeso. Tutte le volte, mi domando se avesse più ragione Mina a dire che le parole sono solo parole parole parole o Moretti a dire che sono importanti. Del fatto che la penna faccia più male della spada non sono convinto: continuo a preferire uno che mi insulta a uno che mi spara. Se la violenza diventasse solo verbale io ci starei, mi sembrerebbe più civile.

E del correggere, cancellare, riscrivere, cosa pensa?

Mi domando se sia giusto investirci tutto il discorso culturale. Credo che una parte consistente delle nostre energie e dei nostri propositi dovrebbero servire a cercare di renderci impermeabili alle offese, perché mi sembra che siamo un po’ troppo fragili. Io sono sempre stato basso, educato – cosa che, come dice il mio collega Luca Ravenna, a Roma ti vale immediatamente una patente di omosessualità ­– e mi sono preso i miei insulti, da piccolo, ma sono cresciuto lo stesso. Non voglio sminuire chi viene perseguitato e magari subisce cose molto più gravi, però penso che agli insulti si possa sopravvivere.

Vedo che usa poco i social, forse non si rende conto della pressione per questo motivo.

Senz’altro questo mi salva. Se devo scrivere una battuta non lo faccio su Twitter ma sul copione di qualcuno che mi paga. Ho un modo di pensare e lavorare assolutamente da vecchio del Novecento: o mi dai un soldino, o mi tengo tutto per me. Comunque ho anche io i miei problemi: i no vax mi attaccano sempre e una volta sono stato castigato per una battuta su Rita Pavone.

Con i no vax non vale, non sono presentabili.

E allora niente da fare, sono un vecchio noioso.

In effetti ha cominciato così presto che potrebbe quasi andare in pensione.

Non ha idea di quanto io brami il ritiro: il mio grande sogno professionale è arrivare a dire: basta, ho fatto il mio, come fece Philip Roth. Credo abbia a che fare con il cattolicesimo, col Cristo in croce che prima di spirare dice, con sollievo, “tutto è compiuto”. Gena Rowland in “Un’altra donna” diceva di provare per la prima volta una sensazione di quiete: ecco, io vorrei quella quiete, mi affascina enormemente.

Ma si diverte a fare il suo lavoro?

Mai. Ed è una delle mie verità più tristi. Mi stresso, mi cruccio, mi innervosisco. Ricordo che quando iniziai come autore di Serena Dandini, prima che lo spettacolo cominciasse c’era sempre qualcuno che diceva: divertiamoci, se ci divertiamo noi si diverte anche il pubblico. Non ero d’accordo allora e non lo sono adesso. Per me fare il comico è una fatica inimmaginabile.

E l’empatia con il pubblico che fine fa?

L’empatia, che grossa stronzata.

Sa che quando hanno rimosso EllenDeGeneres dal suo show  l’hanno accusata di avere un brutto carattere, di trattare male colleghi e collaboratori e naturalmente di non essere empatica?

Se sia spiacevole lavorare con me non lo so, provi a chiedere a qualcuno degli autori di "Pigiama Rave", sono ben sei, avrà un buon contraddittorio. Non ho un carattere facilissimo, ma non maltratto gli altri e di certo non ho mai molestato nessuno. Io ero #metoo prima del #metoo.

Non faccia il femminista, per carità.

Non oserei. Ma ho sempre avuto il terrore di essere molesto già soltanto parlando al telefono, per via della mia voce da gabbiano. Una volta una ragazza per farmi capire che le interessavo ci ha messo otto mesi, perché non capivo. E poi non prendo mai l’iniziativa.

Furbo.

Noioso, lo ripeto.

Cosa la fa arrabbiare?

I ristoranti chiusi.

Non sa cucinare?

Eventualmente sì, ma per me si deve mangiare fuori. Le cucine dovrebbero sparire dalle case. Ora invece mi tocca far la spesa ed è un altro cruccio, un bel problema, perché a me non basta sapere che in casa c’è cibo sufficiente per sfamarmi: ci dev’essere cibo ottimo. Non deve mai mancare almeno una goloseria. Proprio come al ristorante.

È mai andato in analisi?

Mai. Per tempo e soldi che ho sempre ritenuto di non avere. Alla fine della presentazione del mio primo libro, che parlava moltissimo di ansia, uno psicoterapeuta mi prese da parte e mi fece la sua stessa domanda, per poi dirmi che non ne avevo bisogno perché io già avevo accettato e i percorsi di analisi non servono a superare ma ad accettare. Vede, io più che accettare, mi rassegno. Da sempre.

Non si sente mai perso?

Continuamente. D’altronde, come ci si deve sentire? Persi! Esiste un’altra condizione?

Come fa a passare dalla prima serata di Rai3 alla seconda di Rai4?

Perché non ho fatto carriera. Sto nella nicchia.

E perché?

Perché non penso di farla, penso di esserlo: sono la nicchia. Lo vedo quando mi guardo allo specchio. Non sogno Sanremo: non sarei adatto. Posso fare il contraltare e non l’altare. Sono un lavoratore, lavoro tanto, fine.

Come mai in Italia la letteratura umoristica non produce una Fran Lebowitz?

Perché non sono mai esistite davvero le riviste come quelle per le quali Lebowitz ha scritto molti dei suoi racconti. Da noi è più frequente che capiti l’opposto, che lo scrittore arrivi ai giornali dai libri. Penso però anche alla trilogia del cretino di Fruttero e Lucentini: è una delle poche cose veramente meravigliose della letteratura umoristica italiana e raccoglie i pezzi della rubrica che gli autori tenevano sulla Stampa. Viceversa, se ti metti davanti al foglio bianco con l’intenzione di scrivere una raccolta di racconti umoristici, temo che non funzioni.

Quanto la affatica scrivere?

Diceva Dorothy Parker: odio scrivere ma amo aver scritto.

Ho visto che a Pigiama Rave manda avanti una petizione per abolire l’anno bisestile.

Nella caccia ai responsabili della pandemia, che è diventato sport internazionale, ho deciso di dare il mio contributo e ho pensato che l’anno bisestile fosse il perfetto capro espiatorio anche perché possiamo controllarlo. L’anno bisestile lo abbiamo fatto noi e allora possiamo anche disfarlo. 

Io sono molto contraria. Il 2020 ha fatto cose buone, anche se non si può dire.

Sì, è come rispondere “sto bene” a chi ti chiede come stai: è volgare, da stronzi, un vizio privato. Ma torniamo alla mia proposta abolizionista: dandole valore retroattivo, potremo arrivare a dire che non siamo nemmeno nati: ci sono ottimi effetti collaterali, non li sottovaluti. Già che ci sono, propongo anche l’abolizione dell’ora legale. Non ci resta che una manipolazione totale del tempo.  

Non vorrà togliermi  il piacere di svegliarmi alle otto e sapere che sono le sette e che quindi posso dormire ancora?

Allora facciamo una cosa, aumentiamo o anticipiamo questo piacere: quando arriva l’ora legale, la togliamo subito, così introduciamo più ore legali che 24 ore dopo si aboliscono e abbiamo più volte il piacere dell’abolizione dell’ora legale. Che ne dice?

Ci sto. Mi piace. Grazie. Spero che in Europa passi.

Con i poteri forti non ho agganci, ma posso lavorarci.

Lei mi sembra molto pragmatico.

Lo sono. Concreto.

Cinico?

Il giusto. Il vero cinico è un fragile con una sensibilità acutissima che cerca di stemperare e dissimulare tramite il cinismo.

Dice la verità?

Certo, tranne che all’inizio di una relazione, quando cerco di mantenere nascosti i miei difetti il più possibile.

E allora mi dica sinceramente: la stand up comedy ha davvero una sua scena in Italia?

Certo, ed è autentica. Infatti è piena di scarsi. Una scena esiste non quando sono tutti bravi, ma quando ce ne sono tre o quattro eccezionali, dieci medi e il resto penosi. Negli Stati Uniti non sono mica tutti Louis C.K.

Il talento dello stand up comedian qual è?

Riuscire a essere molto personale. La stand up comedy è uno sputtanamento pubblico e funziona se fai di te stesso un personaggio comico che non ti maschera, ma ti veste: la maschera nasconde, mentre il vestito presenta. Ed è questa la ragione per la quale in Italia resterà di nicchia: noi, culturalmente, siamo abituati a una comicità mascherata, dalla commedia dell’arte in poi, fino alla tv.

La televisione le piace?

Mi interessa. Potrebbe fare meglio di Internet, che negli ultimi dieci anni è diventato un posto molto conformista. Potrebbe sperimentare. a "Pigiama Rave" cerchiamo di farlo e, per la prima volta, anziché usare il pubblico come cavia, io uso me stesso: la tv è il mezzo che consente di farlo al meglio, se soltanto lo si vuole.

Per alcuni la tv è spacciata, altro che laboratori e sperimentazioni.

Invece credo che possa prendersi le libertà che il web non può più prendersi. Non ha altra scelta, per sopravvivere, che tirar fuori uno spirito trasgressivo, più o meno come fece il cinema rispetto alla tv negli anni Sessanta e Settanta.  Se Instagram bandisce i capezzoli, allora li facciamo vedere su Rai4.

Ma questa dei capezzoli è un’ossessione!

È la mia parte preferita del corpo di una donna.

Mi dice una cosa che l’ha fatta piangere al cinema?

Il finale di “Lost in Translation”, quando Bill Murray sussurra a Scarlett Johansson qualcosa che noi non possiamo sentire. Sono un grande amante del privato.

Cosa la commuove?

Quello che si può fare in privato.

 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.