L'intervista della domenica

Dimentica la strada

Simonetta Sciandivasci

Le galline in cortile, la Versilia, Forte dei Marmi, Pantani, il Krautrock, i romanzi, l'italiano allegro, i fischi, la reincarnazione. Conversazione con Fabio Genovesi 

Quando non c’era la scusa del lockdown, e per non far niente a capodanno ci voleva un coraggio particolare, Fabio Genovesi talvolta cedeva e festeggiava, però in anticipo, il 28 dicembre, così da evitare bolge, traffico, spari, esaltati. E teneva contenti gli amici, e nessuno poteva rimproverarlo, dirgli che era un misantropo sociopatico, preoccuparsi che fosse depresso, pensare che fosse uno snob. Passava per eccentrico, al massimo, non per uno stronzo.

L’ho ascoltato raccontarlo a una delle prime presentazioni del suo ultimo libro, “Cadrò, sognando di volare” (Mondadori), a febbraio scorso, poco prima che cambiasse tutto, in una sala gremita di persone che si erano sistemate ovunque, anche per terra, come a un concerto indie pop, e ridevano tutte, fortissimo. Genovesi è un provinciale globale, sa fare epica comica della psicopatologia della vita quotidiana come si fa in certi bar di provincia che sono amministrazioni comunali. Trasforma tutto in teatro e racconto.  Ha scritto cinque romanzi, due saggi, un libro per bambini, una sceneggiatura. Più di una volta è stato detto di lui che è “un autore cult” – quando ancora la parola cult era cool.

Non s’è mai mosso, se non per lavoro, dalla Versilia e da Forte dei Marmi, dove è cresciuto. Perché mai dovrebbe andare in vacanza, mi dice, visto che non lavora davvero, ma se proprio scrivere lo vogliamo considerare un lavoro, di certo non lo stanca: lui si stanca soltanto quando va in bici. In “Cadrò, sognando di volare” (Mondadori), c’è un ventenne, Fabio, che deve prendere una strada, e temporeggia finché non finisce in una casa di riposo per preti in cima agli Appennini, a fare il servizio civile. Lì incontra un direttore appassionato di Doors e Giro d’Italia. È il 1998, il ciclismo è Marco Pantani, che quest’anno avrebbe compiuto cinquant’anni il 13 gennaio, quando questo romanzo è arrivato in libreria. Pantani cambia la vita di Fabio, che di Genovesi è un pezzo, una possibilità. Come si dice: un alter ego.

Quando lo chiamo, mi risponde con un resto di fiatone, lo immagino in bici in pantaloncini, si sente il vento, si sente anche il mare: non m’azzardo a dirgli di spostarsi, m’abituo all’interferenza come posso, al massimo sbaglierò qualche nome, che fa?

Com’è il lockdown in una minuscola provincia? Più o meno soffocante?

Gli esseri umani si aggregano e si distanziano. Sono due cose che si devono fare insieme, come inspirare ed espirare. In provincia si riesce a farlo meglio perché c’è più spazio: quella cosa che, in una grande città, sembra subito un vuoto. Sa che mia madre non concepisce che nel mondo ci sia gente che cerca parcheggio? È nata e cresciuta in un posto dove c’è sempre un posto per la propria macchina, quindi per lei è inaffrontabile, impossibile che da qualche parte quello che per lei c’è, che è sempre immediatamente disponibile, si debba invece andare a cercare. Come il sole sull’Adriatico: quando la chiamo per dirle che su quel mare non c’è tramonto, lei dice che mento. È nata in un posto dove il sole tramonta sul mare, non accetta che altrove possa succedere il contrario di quello che vede lei.

 

Ci sono metropolitani molto ma molto più testardi, mi creda.

Lo so bene. Vivo in un posto dove le persone vanno in vacanza e non smetto mai di stupirmi per come riescano a replicare, con esattezza esasperante, i ritmi dell’ufficio. Vanno in spiaggia alla stessa ora in cui timbrano il cartellino, creando gli stessi ingorghi, lo stesso traffico, e poi tornano al pomeriggio, in tempo per prepararsi e fare l’aperitivo, esattamente come farebbero in città, in un infrasettimanale qualsiasi. Sono programmati per fare della vita un lavoro: non fanno quello che vogliono neanche quando possono, non si sfilano mai dalla tabella di marcia.

 

E lei lì a commiserarli, che cattivo.

Ma no, io osservo e racconto, come tutti. Vede, la provincia è la patria della narrazione: le poche cose che succedono, bisogna sfruttarle al massimo, dirle, ridirle, allungarle, acconciarle. A Milano una signora che passa con un cappello pieno di piume è solo una visione momentanea, se qualcuno la nota e ne parla, lo fa per non più di cinque minuti: presto ne arriverà una con addosso una bizzarria ancora più grande. Da noi, invece, quella signora diventa un evento, se ne parla per giorni, fantasticandoci sopra: sappiamo che non rivedremo presto una come lei. 

 

La convenzionalità è più al sicuro in città o in paese? Ho l’impressione che il conformismo sia un topo di città.

I miei lettori che non vivono in provincia pensano che i miei personaggi più grotteschi siano inventati. E invece sono persone che conosco e incontro, che vivono intorno a me, e che sono accettate, integrate e serene. Penso spesso che, altrove, magari a Roma o Milano, non se ne andrebbero facilmente in giro da sole, sarebbero ritenute problematiche. Nel piccolo centro si ha molto più diritto a esser strano, la comunità ha più pazienza, misericordia, tempo: nessuno viene isolato, di nessuno si ha paura. Un amico di mio padre era convinto di essere un cavallo, e tutti lo trattavano come se lo fosse, accettando questa sua piccola follia, che era innocua e poetica. Ricordo che gli dicevano: “Armando, facciamo una gara, vediamo chi arriva prima all’edicola” e lui nitriva e correva. Da un’altra parte, in una città piena di gente, sarebbe parso pericoloso e si sarebbe proceduto a rinchiuderlo o curarlo, naturalmente senza alcun successo. Uno così non puoi trasformarlo in un impiegato delle poste, devi lasciarlo libero d’esser chi è, strano e contento a modo suo.

 

La città soffoca l’estro?

Non dico questo, ma di certo in provincia se vuoi qualcosa è assai facile che non ci sia, e allora devi creartela da solo.

 

Mi racconta la prima impresa che ha fatto a Forte dei Marmi, per avere quello che non c’era?

Avrò avuto sette o otto anni e, insieme a mio cugino e un amico, decisi di vendere sigarette fatte in casa, perché sentivo spesso i miei parenti adulti, tutti fumatori di professione, che si lamentavano per il costo dei pacchetti. Così riempimmo di muschio le canne di caniccio – con il caniccio in Versilia si fa tutto, io avevo una cucina con le pareti di caniccio, e sapesse che aria, che frescura. Sembravano proprio sigarette, sa? Dopo aver provato a fumarle, sentendoci peraltro malissimo, ci azzardammo anche a venderle. Fu un meraviglioso insuccesso: nessuno ne comprò mai neanche una. Però che avventura.

 

Lei mi sembra contento di stare dove sta. Di fare la vita che fa.

Sì, lo ammetto.

 

Ma come si permette di non addolorarsi, scusi? Lei è uno scrittore!

Ha ragione. A volte mi domando se dovrei fingere: in Italia è meglio nascondersi sotto un’aura di dramma. È l’arte dei mediocri: camuffare la noia e la piattezza, travestendole di serietà. I serissimi di solito sono scemissimi.

 

Cosa la salva dalla coazione all’insoddisfazione?

I miei genitori. Non sono nato in una famiglia alto borghese, mia madre e mio padre non mi hanno mai fatto pressioni, non sono mai tornato a casa da scuola con il terrore di essere punito per un brutto voto. Mia nonna mi diceva sempre: non studiare troppo, ché diventi antipatico.

 

Più studi e meno capisci?

Non forniamo alibi ai ciucci, per carità.

 

Giusto. Senta. Non le manca la mondanità? Se esistesse una società letteraria come quella del dopoguerra, le piacerebbe farne parte?

Ho pochi amici che scrivono, mi piace incontrarli ogni tanto. Per fare diversamente, dovrei cambiare abitudini e città. Se frequentassi costantemente scrittori, giornalisti e intellettuali, poi, finirei con lo scriverne. E io odio i libri di scrittori che parlano di scrittori: sono il primo lettore di me stesso, non posso fare libri che non leggerei, che detesterei. Mi diverto sempre molto, però, quando qualche autore mi dice che siamo colleghi: significa che può anche spiegarmi che lavoro facciamo. 

 

Scrivere non è un lavoro?

Certo che lo è, ma a me sembra sempre un miracolo il fatto che mi paghino per fare una cosa che amo così tanto. Una magia. 

 

Le viene facile? Sveva Casati Modignani una volta ha detto a questo giornale che se uno fa fatica a scrivere, è bene che cambi mestiere.

Ha ragione. Si dice che uno scrittore si vede dalle storie che racconta. Per me è diverso, credo si veda nel modo in cui le racconta. Ci sono quelli che godono a complicare tutto, quelli che quando scrivono di un uomo e una donna che bevono un bicchiere di vino, precisano che si tratta di Chardonnay. Che cazzata. Nei momenti importanti della vita, e quindi del racconto, esiste il vino. Il vino e basta. Chissenefrega se è Chardonnay o Cannonau. I dettagli bisogna saperli usare e dosare, spesso sono un fardello inutile caricato sulle spalle dei lettori con il solo scopo di sembrare colti, intelligenti, ammirevoli. Il mio onere più grosso, diciamo la fatica più grande, quando scrivo, non è inventare una storia, ma lavorare tantissimo affinché il lettore lavori pochissimo. Le mie prime stesure a volte raggiungono le mille pagine: poi sottraggo, limo, tolgo quello che piace e serve solamente a me e cerco di lasciare quello che serve e piace a chi mi legge. Non bisogna mai riempire di sassi le tasche dei lettori. Per questo leggo e rileggo ad alta voce: per vedere se suona, se fila, se è piacevole. Se non lo è, significa che non è un buon libro. I miei romanzi sono tutti pensati per essere raccontati a voce. Il mio sogno è che vai in libreria, compri il mio libro e poi io, disturbando il meno possibile, vengo a casa tua e te lo leggo, te lo racconto come si faceva quando non c’era la tv e ci si riuniva intorno al fuoco a dirsi storie di fantasmi, che sembrava fossero lì, alle proprie spalle, in quella semi oscurità che il focolare non illuminava. Noi invece abbiamo sempre la luce accesa, le lampadine non lasciano niente nell’ombra, ti danno l’impressione che non ci sia qualcosa d'altro e cancellano l’incombenza, il mistero. Ma io è di quell’altro che scrivo, di quel qualcosa che abbiamo sempre addosso, alle nostre spalle, e che potrebbe piombarci davanti da un momento all’altro.

 

Non la preoccupa niente del suo lavoro?

Non avere il tempo di scrivere tutto quello che vorrei scrivere.

 

Non si sente mai in pericolo?

Sempre. Quando scrivo, sempre. Dev’essere così, devo lasciarmi portare dalle storie dove non prevedo di andare. Per questo non faccio schemi. Se so che a pagina duecento i miei protagonisti si danno un bacio, mi annoio e scrivo duecento pagine noiose. La torcia con cui avanzare mentre si crea un romanzo non deve illuminare oltre un passo da sè.

 

Perché si sente così vicino a Pantani?

Suo padre era un idraulico e mio padre anche; sua madre era casalinga e mia madre anche; entrambi lo sostenevano, e i miei genitori anche lo fanno, da sempre.

 

Coincidenze, quindi, e basta?

Pantani vinceva sempre, anche quando sembrava di no, ed era chiaro che non calcolava niente, che si lanciava, s’avventurava senza torcia. La sua non era ambizione: era necessità. Io alla Mondadori non ho mai mandato niente, ci sono arrivato perché mi hanno cercato loro. Giulia Ichino, molti anni fa, quando ancora era editor della narrativa italiana per la casa editrice, trovò in libreria un mio libro pubblicato da Transeuropa, lo lesse, le piacque e mi contattò. La vita è questa cosa qui, le cose succedono in questo modo, fuori programma, fuori orario. Ogni partenza di Pantani era così: inaspettata e incredibile.

 

Cos’ha lo sport di tanto affascinante per uno scrittore?

Non ho mai visto una partita di calcio in vita mia a parte quelle dei mondiali, e non per snobismo.  Non mi interessa lo sport per lo sport, ma ne amo le storie, trovo siano l’occasione perfetta per parlare di tutto. Hunter Thompson con la scusa di raccontare una gara di motociclette nel deserto del Nevada scrisse “Paura e disgusto a Las Vegas”. Per me tutto è in tutto. Vedere pedalare Pantani era questo: assistere allo spettacolo della vita che sta dentro tutte le cose.

 

Il talento finisce? Sulla pagina di Wikipedia di Marco Pantani, è riportata una cosa che disse a Gianni Mura, quando lui gli chiese perché andasse così forte in salita. Disse: “Per abbreviare la mia agonia”.

L’atleta ha una via brevissima. Uno scrittore può stare fermo un anno e non succede niente, mentre un atleta perde occasioni probabilmente irripetibili. Penso a Bartali, che negli anni della maggiore grandezza e prestanza, visse in guerra: che spreco. Penso ai tantissimi infortuni che bloccarono Pantani, che altro immenso spreco. La furia dei risultati che hanno alcuni atleti non è arrivismo: è che loro sentono quanto corre la vita. Io sono nato in mezzo agli anziani e frequento quasi soltanto anziani: mi sto rendendo sempre più conto di quanto è vero quello che mi hanno sempre detto su quanto poco dura la vita.

 

Ha detto una volta che il ciclismo sarebbe potuto morire con l’arrivo dei motori, e invece è uscito dal tempo. Raccontare le cose mentre accadono, come fa lei al Giro d’Italia, è un modo per farle uscire fuori dal tempo?

Probabilmente sì. O almeno raccontarle mentre accadono per te. 

 

Dov’era quando c’è stato l’11 settembre?

In un monastero di preti, lo stesso del romanzo. Mi ero ritirato lì per un po'. Sentii la notizia in radio e andai a riferirla al prete che mi aveva chiesto di aiutarlo a raccogliere gli ultimi pomodori di settembre, quel pomeriggio. Ero stordito, incredulo e credevo che i nostri piani, tutti i piani, dovessero saltare. Quel prete mi disse: davvero? E immediatamente dopo aggiunse: andiamo a raccogliere i pomodori. Dell’anzianità mi piace questo: niente sposta il ritmo della vita.

 

E dov’era quando ci hanno detto che l’epidemia del covid era pandemia?

Tornavo a casa da Lecce, su un treno Bari - Roma. Ero in tour con il mio libro, che era appena uscito, e tutte le presentazioni erano andate bene finché a Lecce non s'era presentata anima viva, o quasi: gli indici di contagio avevano spaventato tutti, l'OMS aveva dichiarato che eravamo entrati in pandemia, e così decidemmo di annullare gli incontri. Sul mio treno, che viaggiava praticamente vuoto, era salito un ragazzo a disinfettare il vagone e a me era parso tutto fantascientifico e assurdo, quasi una scena demenziale. Non realizzavo ancora niente di niente.

 

So che ascolta heavy metal. Alla sua età.

A dieci anni ascoltavo semplicemente rock, finché il figlio del padrone del circolo di tennis vicino casa mia mi disse: adesso te lo faccio sentire io il vero rock! E mi regalò una cassetta con gli Iron Maiden e gli Scorpions. Non smetterò mai di ringraziarlo. A Forte dei Marmi ad andare dietro a quella roba in quegli anni eravamo in pochissimi e tutti ci dicevano che saremmo cresciuti e avremmo smesso, che avremmo imparato ad apprezzare altro, che saremmo passati al jazz. Io ero terrorizzato. Sognavo di morire prima.

 

Voleva morire pur non ascoltare il jazz? La capisco. 

Il jazz mi piace, ma quello bianco intellettuale no, quello mi uccide. E comunque quella profezia non si è avverata: ancora ascolto l’heavy metal, il progressive rock, la psichedelia, la musica tedesca sperimentale anni Sessanta e Settanta, suonata da musicisti quasi mai lucidi. Quanto è sopravvalutata la lucidità.

 

Ma allora lei ascolta il Krautrock!

Quello! Ma come fa a conoscerlo? Saremo in cinque in Italia.

 

Ne parlava Jonathan Coe ne “La banda dei brocchi”. 

È una musica meravigliosa, dimostra che non c’è un limite, che in un disco non devono esserci per forza dieci canzoni dove l’ottava è una ballata. Si può anche fare una canzone e basta che duri trenta minuti. Non è un caso che la droga del nostro tempo sia la cocaina: la droga del risultato, dell’esaltazione, del record. Le canzoni adesso o sono successi di streaming o non sono. La musica che si produceva sotto acido, invece, non serviva a farti sentire qualcuno, non era un traguardo, non voleva essere efficace: se mai, voleva avere un effetto e, meglio ancora, restituirtene uno. Almeno uno di mille altri.

 

Ci sono cose che è fiero di non saper fare?

Ho volato per tanto tempo ma da qualche anno non ci riesco più. Non riesco nemmeno pensare di mettermi su un aereo. Viaggio diversamente, mi godo il tragitto e non sa quanto ci guadagno. Le storie nascono durante il tragitto. Nel mondo non c’è un posto dove vorrei essere ma in tutto il mondo vorrei poter passare. Il giro d’Italia me lo consente, mi piace per questo.

 

La vita solitaria le piace?

La faccio da sempre. Quando sento le lamentele sul lockdown, che naturalmente capisco, vorrei anche chiedere un po’ di rispetto, vorrei dire: ehi, siate meno sprezzanti, è della mia vita che state parlando, e vi garantisco che non è affatto male. Mi fa dire una cosa buona della quarantena?

 

Prego.

Nessuno potrà più azzardarsi a raccontare la balla della mancanza di tempo per leggere – non ho mai capito quelli che inventano scuse, come se essere lettori fosse un obbligo morale e civile. La scorsa primavera ho visto persone che, pur di non godersi un buon libro, si sono messe a panificare.

Per non parlare di quelli che si vergognano di dire che, isolati, sono stati benissimo.

Zerocalcare lo ha raccontato alla perfezione: c'è stato chi ha inventato persino delle scuse per prolungare il lockdown. Perdonami ma non posso venire a trovarti, sono stato in contatto con un positivo, ci risentiamo tra due settimane, ciao. E qualcuno s'è pure fatto il tampone, per coerenza e senso di colpa.

 

So che ama fischiare.

Credo nella reincarnazione. Sono sicuro che questo sia il mio primo giro da essere umano. Fischiare mi riporta alle altre vite, che capisco meglio. Mi fa sentire che siamo uniti al resto del pianeta. Le peggiori schifezze l'essere umano le fa quando si pensa separato dagli altri esseri viventi, dal resto del cosmo. È una delle tante cose che non capisco degli uomini: il resto è così meraviglioso, farne parte non ci conviene? 

 

Cos'altro non capisce di tutti noi?

I dolori, gli obblighi: mi sembra che ci si metta in catene con le proprie mani. Quando ascolto le storie di persone che vivono relazioni che detestano, non mi capacito del fatto che non se ne tirino fuori. Via, si deve saper andare via, come fanno gli animali.

 

È stato un passero, nelle sue vite precedenti, dice?

Lo spero! Sa che ogni mattina mi sveglio alle cinque e do da mangiare alla mia gallina e ai miei uccelletti? E non pensi che li tengo in gabbia: vengono loro da me, puntualissimi. Mangiano e poi volano via, arrivederci a domani.

 

Come fa a essere felice?

Non esserlo mi farebbe sentire tanto ingrato.

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.