Jacopo Gassman (Credits: Laila Pozzo) 

L'intervista della domenica

Il teatro dei miracoli

Simonetta Sciandivasci

I dubbi, il football americano, i bar notturni, l'Uruguay, Andrea Zanzotto, il vino, Battiato insegnato a suo padre, la regia che verrà. Conversazione con Jacopo Gassman 

All’inizio dell’ultimo spettacolo che ha portato in scena, “Niente di me” di Arne Lygre, un uomo dice a una donna: “Diciamo che è qui che dobbiamo vivere la nostra vita. Non è ancora nulla, ma abbiamo una volontà: conta quello che diciamo. Dobbiamo soltanto deciderci. Le nostre parole significano qualcosa”. L’uomo è Lui, la donna Io, il terzo personaggio che arriva a un certo punto è Una Persona. Non ci sono nomi perché non ci sono che parole che, in questa storia, creano la scena, la storia, il futuro, il presente, i personaggi e i loro tentativi. Le parole sono e fanno tutto, e Lui e Io se ne servono, per ridiventare, rinascere, ricominciare, illusi di poter così dominare il proprio tempo e il proprio destino. La parola, nel teatro e nella vita di Jacopo Gassman, è praticamente tutto, o quasi tutto, sempre, o quasi sempre. Ne conosce il potere e l’imperfezione, insieme al regista teatrale fa anche il traduttore, di lingue ne parla diverse, i testi che rappresenta sono spesso di autori inediti in Italia, che lui stesso traduce. Vale anche per questo “Niente di me”, che in scena ha esordito a settembre e adesso, con i teatri chiusi, è sospeso, rimandato all’anno che verrà.

Quando gli ho scritto che avrei voluto intervistarlo per ritrarlo e parlare di tutto, mi ha risposto: “Devi sapere due cose di me. Uno, conosco la storia del rap americano meglio di qualunque italiano. Due, conosco la storia degli sport americani meglio di Rino Tommasi”.

Non mi è parso sufficiente per descrivere un Gassman, e allora gli ho fatto qualche altra domanda. Al telefono, con la distanza sociale garantita.

Tra Liga e Vasco?

Leonard Cohen.

 

Ma no, me ne dica uno italiano.

Uno solo?

 

Cambiamo gioco. Il suo podio. Prima gli italiani, grazie.

Lucio Dalla al primo posto. Battiato al secondo. Al terzo, Califano e De Gregori. Pari merito.

 

E Battisti?

No! Battiato.

 

Ha la voce di suo padre.

Battiato glielo feci conoscere io, sa? Lo portai a Perugia a un concerto del tour di Gommalacca, gli piacque, Battiato era onoratissimo per la sua presenza, non immaginava che fosse stato un ragazzino, io, a portare lì Vittorio Gassman.

 

La migliore di Lucio Dalla?

“La sera dei miracoli”. Non c’è dubbio.

 

La facevo meno assertivo.

Non sono affatto assertivo, ma “La sera dei miracoli” è un capolavoro assoluto.

 

Come va?

Come vuole che vada. Dispiace. Dispiace tutto.

 

Come ne uscirà il teatro?

E’ una domanda enorme.

 

Vorrei evitare di chiederle come ne usciremo tutti. E m’interessa sapere se lei, in questo disastro, ci vede la possibilità di un racconto.

L’ultimo spettacolo che ho visto a Londra parlava del Covid, di questo momento. Era uno spettacolo di David Hares, uno dei miei registi preferiti, e sul palco c’era Ralph Fiennes, che ritengo un attore straordinario. Eppure, non mi ha convinto, qualcosa non ha funzionato. Il teatro non riesce a catturare l’attualità perché il teatro è metafora, procede per allusioni, sottrazioni: se lo invadi con il presente, ti si sfarina in mano. Se proprio dovessi scegliere di raccontare quello che sta capitando, lo farei con un altro mezzo, credo che sceglierei il documentario. Anzi, un finto documentario, un mokumentary che unisca realtà e sua manipolazione, alla Herzog. Herzog ha capito tutto.

 

E lei cos’ha capito?

Del teatro, una cosa precisa: funziona quando non è chiuso, osserva la realtà e il presente attraverso una domanda, e le domande le fa sorgere, moltiplicate, in chi lo fa e in chi lo guarda.

 

Però la pandemia è un soggetto che di domande ne pone parecchie.

È vero e infatti non sono certo che domani non possa venir fuori uno spettacolo, magari cileno, magari spagnolo, o francese, o uruguaiano, che sia stupendo, perfetto, che trovi il modo. Questo non mi fa cambiare idea, però. Lo insegna la storia: un fatto va affrontato con un margine di prospettiva, perché quando ci stai dentro è difficile essere lucido, avere uno sguardo brechtiano.

 

Uruguaiano?

In Uruguay c’è una scena teatrale incredibile, viva, piena di sperimentazione. Lo stesso in Spagna, negli Stati Uniti, in Inghilterra.

 

E in Italia?

In Italia facciamo molta più fatica. I produttori arretrano davanti alle proposte più sperimentali, quando decidono di avventurarcisi è quasi sempre perché c’è un grosso nome, un attore famoso, un volto televisivo. Basta osservare le locandine degli spettacoli: negli Stati Uniti non fanno alcuna fatica a mettere in primo piano il nome di un autore esordiente, da noi invece si punta tutto al nome conosciuto, c’è sempre una stampella e mai un trampolino.

Rischiamo poco sulla nuova drammaturgia anche per un fatto culturale, veniamo da una tradizione che per fare il teatro nuovo, ha riscritto e decostruito il teatro vecchio. In questo, siamo simili ai tedeschi: in Germania e in Italia i grandi autori per tutto il Novecento hanno soprattutto rotto testi sacri che hanno poi riscritto, reinterpretato. La scrittura originale è stata secondaria e lo è tutt’ora.

 

Che cosa ne pensa delle sperimentazioni teatrali che ci sono state durante il lockdown?

Che sono state interessanti, alcune più di altre, ma non credo che il teatro possa funzionare a distanza, con la sala vuota, gli spettatori a casa, e l’attore online. Prima o poi torneremo a una normalità, o ne costruiremo una nuova, saremo feriti e spaventati, anche se potremo stare vicini, probabilmente ci terrorizzerà anche solo l’idea di farlo. Il teatro, come tutto, dovrà farci i conti.

 

E come diventerà?

Innanzitutto, credo che dovrà farsi più agile, specie da un punto di vista produttivo. E poi, per forza di cose, soprattutto all’inizio, dovrà essere un teatro di pensiero e continuare a misurarsi con le ferite del suo tempo. Questa della pandemia sarà una ferita molto profonda, ce la porteremo addosso, aperta, a lungo.

Crede che riusciremo a tirarci fuori da questa narrazione così netta, divisa, presuntuosa e poco sfumata, crede che torneremo ad accettare i dubbi, i grigi, a tirarci fuori dalla retorica della resilienza, la rinascita, il riscatto?

I nostri sono tempi iper performativi e profondamente tragici e tutto viene raccontato attraverso dicotomie troppo semplici, che non aiutano né a risolvere né a indagare le questioni. Lo spettacolo teatrale ha senso se è capace di tenere in piedi due pensieri perennemente contrastanti, se continua a riformulare domande, in chi lo ha visto, anche quando è finito.
 

Come sceglie i testi da rappresentare?

Dirò una cosa banale: scelgo quelli che mi emozionano.

 

E cosa la emoziona?

È una domanda alla quale non si può rispondere. Succede, e basta.

 

Cosa la colpisce, allora?

Le vittime che diventano carnefici. I buoni che subiscono delle ingiustizie.

 

E i cattivi?

Mi divertono, ma sono quelli più facili da raccontare.

 

Mi dice un cattivo del nostro tempo che abbia quella scissione, che sia carnefice e anche vittima, e che lei rappresenterebbe?

Complicato. In Italia di cattivi non ne abbiamo. Finiscono sempre con il diventare macchiette, appena perdono il potere. Abbiamo poca memoria, poco rigore.

 

Harvey Weinstein?

Interessante. Però lo spettacolo che ne ha fatto David Mamet non mi ha convinto, e David Mamet è immenso, e sa come graffiare, ma ha rappresentato Weinstein dall’inizio alla fine come l’orco che è: non ha detto nulla di più. Forse il punto è sempre quello che dicevo prima: quando il teatro cerca di afferrare l’attualità, fallisce.

 

Però lei è sempre del presente che cerca di parlare.

Il presente e l’attualità sono due cose molto diverse.

 

Ha mai preso ispirazione dai giornali per il suo lavoro?

Molto spesso quando leggo la cronaca mi capita di pensare al film che se ne potrebbe fare. Il cinema, per quanto sia inventato e finto, è adatto a raccontare quello che succede molto più del teatro. Quando lessi della strage di Anders Breivik, che in Norvegia nel 2011 uccise settantasette ragazzi, in un attentato che aveva pianificato e studiato per nove anni, decisi di farne uno spettacolo. Mi colpì che quella storia fosse successa in un posto ricco, funzionante, che almeno noi percepiamo come risolto.

 

Ha studiato il teatro fuori dal nostro paese. Cosa importerebbe?

I dipartimenti di drammaturgia. A Londra ogni teatro, anche il più piccolo ne ha uno. Sono laboratori, fucine dove non solo si formano i giovani autori, anche i più acerbi, mettendosi a loro disposizione per un periodo più o meno lungo, ma si dibatte di quali temi affrontare. Spesso gli spettacoli che i teatri mandano in scena nascono da intuizioni di autori giovanissimi che vengono poi aiutati a costruire tutto il resto. E il pubblico è sempre numeroso.

 

In Italia sarebbe impensabile?

Ci vogliono almeno un po’ più di soldi.

 

Sogniamo.

Lo dice a un insonne.

 

Intendo: mi dice un suo sogno per il teatro in questo paese?

Mi piacerebbe dirigere un teatro. La prima cosa che farei sarebbe creare uno di quei dipartimenti di drammaturgia.

 

Quando è stata la prima volta che ha messo piede su un palco?

Avevo tre anni, più o meno. Mio padre stava concludendo un recital dei suoi cavalli di battaglia, al festival di Avignone, e io ero in platea con mia madre. Sgattaiolai dietro le quinte, presi un cilindro, entrai in scena e recitai il finale del Riccardo III. Venne giù il teatro. I giornalisti scrissero di me, uno s’infilò nel camerino di papà per intervistarmi, io gli dissi che non potevo perché ero caduto e mi faceva male la rotula. Dissi proprio “Mi duole la rotula”. Almeno così mi hanno raccontato. Io non ricordo niente, ero troppo piccolo.

 

Bambino impegnativo.

Cosa vuole, mio padre ci faceva imparare a memoria la Divina Commedia, ci interrogava. Immagino che per alcuni possa sembrare terribile, traumatico. Noi invece ci divertivamo da pazzi.

 

Qual è la parte che preferisce del suo lavoro?

Il momento del tavolino, quando si sta seduti a parlare del testo, a studiarlo. Io studio e leggo tutto quello che ha a che fare con le cose che rappresento, in modo più o meno diretto. L’anno prossimo rappresenterò Ifigenia in Tauride e credo di aver letto una quantità di libri che coprirebbe i chilometri da Roma a Tubinga. Poi mi piace moltissimo scegliere i collaboratori. E gli attori. Se azzecchi i casting, hai fatto la gran parte del lavoro.

 

Dice qualcuno che il teatro muore mentre lo si fa.

È vero. Per questo poi non muore mai. Quello che succede sul palco è irripetibile: avviene nell’istante della performance e poi mai più.

 

Questo la spaventa?

No. Ma morire sì, mi spaventa. Moltissimo. La morte di mio padre è stata per me dolorosissima, cruciale, per mesi feci fatica a parlare e a che a capire cosa mi dicevano gli altri. Lessi moltissima poesia, mi innamorai perdutamente di Andrea Zanzotto, tanto che decisi di andare a trovarlo. Quando mi aprì la porta, mi afferrò e mi disse di sbrigarmi. Disse “Entri, entri, che ho la morte che entra da tutte le parti!”. E quel giorno mi disse anche che esistono due stagioni: l’inverno e l’inferno.

 

Aveva ragione.

Certo che aveva ragione.

 

Mettiamo da parte il teatro e la poesia. Cosa le piace di più, in assoluto? La sua cosa preferita, quella che le dà più il gusto della vita.

Cenare con i miei amici, bere una bottiglia di vino.

 

Cucina lei?

Ottimamente, ma amo soprattutto mangiare fuori.

 

I suoi amici fanno il suo stesso lavoro?

No, per carità.

 

Ha amiche donne?

E tutte più intelligenti di me.

 

Intellettuali ne frequenta?

Dieci anni fa mi interessavano di più, diciamo che era prioritario, per me, avere a che fare con persone di cultura, intelligenti. Adesso la cosa che più conta è legarmi a persone trasparenti, limpide. Mi scalda la sensazione di poter avere totale fiducia in qualcuno.

 

Parlava molto con suo padre?

Quando mi trasferii negli Stati Uniti per studiare, decidemmo di scriverci. E lo facemmo tanto, al punto che lui pensò di tirarne fuori un libricino che avrebbe voluto chiamare “Spuma e fondo del barile”. Morì l’anno dopo.

 

Da suo padre cosa ha imparato?

Tantissimo, naturalmente. Era un uomo di impressionante disciplina morale e professionale, ma quando ero piccolo mi insegnò che a volte si deve smussare, cedere, accogliere il limite. Tornavo con quattro in matematica e lui mi diceva: “Sarai na pippa coi conti ma su Sofocle annamo forte”.

 

E infatti poi guardi com’è andata.

Una cosa è certa: il teatro, per precario che sia, non morirà mai.

 

Di Roma cosa ama?

I bar di notte, quando la notte non era proibita.

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