Le imbarazzanti prefazioni di Bologna e Cacciari al Meridiano di Asor Rosa

Uno sfoggio di culturalismo e citazionismo vizioso

Alfonso Berardinelli

L’uscita del Meridiano Asor Rosa, già recensito su questo giornale da Matteo Marchesini, suggerisce qualche considerazione sia sulla nostra maggiore collana di autori storicamente consacrati o da consacrare oggi, sia su un fenomeno o morbo di cui è vittima la nostra cultura cosiddetta alta, morbo che chiamerei “culturalismo” o alienazione culturalista. Quanto alla collana dei Meridiani, il problema naturalmente non è soltanto Asor Rosa. Di autori frettolosamente consacrati nonostante il loro valore piuttosto discutibile ce ne sono stati diversi, da Giuseppe Pontiggia a Enzo Siciliano, a Gianni Celati.

 

È chiaro che certi precedenti creano le condizioni che renderanno poi inevitabili o quasi certe conseguenze. Per limitarsi ai saggisti e critici letterari, di vuoti viceversa nei Meridiani ce ne sono diversi: finora ignorati sono Cesare Garboli e Cesare Cases, Sergio Solmi e Gianfranco Contini, Carlo Levi e Piero Gobetti. Quanto ad Asor Rosa, è stato preceduto da Pietro Citati e Cesare Segre, due scelte che insegnano qualcosa: viene premiata o la critica più enfaticamente “creativa” di un critico da salotto borghese d’antan come Citati, o quella suppostamente “scientifica”, da laboratorio universitario, come quella di Segre. Alle loro spalle ci sono due storie e due equivoci, che riguardano la qualità letteraria della scrittura critica o la sua fondazione teorica. Citati e Segre rappresentano due casi in cui stile o teoria si sono presentati nella forma più ripetitiva e solenne. Siamo così arrivati ad Asor Rosa, che per vacua solennità ha pochi rivali, ma la cui storia non riguarda né lo stile né la teoria, in lui entrambi assenti, riguarda la politica: una politica che all'inizio, negli anni sessanta e settanta, aveva qualcosa di più oggettivo (il delirio “operaistico” di Mario Tronti) mentre in seguito si è trattato soltanto di una politica editoriale e personale di semplice autopromozione. Senza l'accoglienza troppo generosa di Giulio Einaudi e quella molto interessata di Eugenio Scalfari, oggi Asor Rosa significherebbe poco o niente.

 

La cosa comunque più interessante nel Meridiano che antologizza le Scritture critiche e d’invenzione di Asor Rosa sono le due prefazioni di Corrado Bologna e Massimo Cacciari, esemplarmente imbarazzanti per il loro “culturalismo” o citazionismo vizioso. L’autore di cui dovrebbero parlare è più addobbato che individuato. Invece che guardare un volto, confezionano una maschera. La cultura e i suoi riferimenti a grandi o grandissimi autori si moltiplicano e si affollano fino all’inverosimile intorno a un Asor Rosa la cui identità e figura rimangono sfuggenti benché ingigantite. Sia Bologna che Cacciari, a forza di ruminare cultura, fanno tutto il possibile per eludere, travisare, sublimare e infine nascondere sé stessi. Abituati a manipolare grandi nomi e categorie generali, fingono di non vedere, o meglio non vedono, quello che hanno sotto gli occhi, un professore smodatamente ambizioso. Del resto il loro compito di prefatori era esattamente quello di celebrare allo scopo di non far capire e di mascherare.

 

L'introduzione di Corrado Bologna, intitolata nientemeno che “I classici della letteratura, fra caos e cosmo”, è in effetti cosmologica e caotica. Asor Rosa diventa subito un classico per la ragione che ha teorizzato, diciamo così, sulla nozione di classico. Scrive Bologna: “Andare ‘alla radice delle cose’ per poter di nuovo ‘esplorare, sommuovere le profondità dell’essere, come un aratro che rovescia le zolle e ne mostra il lato a lungo nascosto’. L’Essere è come il ventre della madre terra, da cui l’uomo trae nutrimento sommuovendolo: il lampo della formidabile metafora agricola, quasi un’allegoria pre-istorica, metafisica, riecheggia a lungo nel testo di Asor Rosa dando vita a una serie di onde d'urto, nel contempo figurali e concettuali, sempre più ampie”. Nelle pagine che seguono, Bologna, per parlare o meglio non parlare di Asor Rosa, cita Curtius, Foucault, Leopardi, Macchia, Nietzsche, Marx, Said, Auerbach, Calvino, Pinocchio, Dostoevskij, Gadda, Cervantes, Heisenberg, Hegel, Warburg, Burckhardt, Ortega y Gasset, Lukacs, Ernesto de Martino, Kierkegaard, Mann, Montaigne, Pascal, Weinrich, La Bruyère, La Rochefoucault, Primo Levi, Gramsci, Moravia, Mahler, Pasolini, Francesco d'Assisi (quest'ultimo come approdo finale e papale). Anche Cacciari, nel suo scritto introduttivo, non scherza, parlando del suo amico Asor (lo nomina sempre così, tenendogli una mano sulla spalla).

 

Il suo “culturalismo”, fatto delle solite paroline greche e tedesche, è peraltro ampiamente noto con quanto ha di “barbaro e ridicolo” (direbbe Leopardi). Dopo aver rievocato i loro comuni e “ruggenti” (sic!) anni sessanta, quando attribuivano alla Classe operaia una ontologica potenza rivoluzionaria asociale, aculturale e antisistema, il filosofo oggi da decenni adelphiano va avanti a Kultur e Romantik, Hoelderlin e Musil, Kafka e Beckett, Toni Negri e Keynes e Weber, Cristo, Shakespeare, Benjamin, Tronti e anche una “nuda vita” (formula di moda scippata ad Agamben) concludendo con una lode assai virile del “saper tramontare”. Fosse vero, ma non lo è: tutto è detto per così dire. Di tramontare, né Cacciari né il suo Asor vogliono saperne. Continuano a mettersi in posa come sempre hanno fatto, a faccia seria e “con fronte metallica” (direbbe Leopardi).

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