La normalità s'è dissolta nell'eccezione. Eppure non possiamo farne a meno

Sergio Belardinelli

Perché questa parola è diventata ormai un tabù quando si parla di un comportamento, un’azione o uno stile di vita? I limiti del diritto di ciascuno alla propria “differenza”

Dopo l’uso poliziesco, discriminatorio e in parte criminale che se ne è fatto in passato, la parola “normalità” è diventata oggi un tabù. Al massimo possiamo concedere che si parli del normale battito cardiaco di una persona o del normale decorso di una malattia, ma guai a parlare di normalità di un comportamento, un’azione o uno stile di vita. A questo livello esistono ormai soltanto “diversità”. La normalità ha lasciato il posto a una sorta di estetica dell’eccezione, grazie alla quale il principio dell’universale uguaglianza di tutti gli uomini viene ormai declinato come diritto di ciascuno alla propria “differenza”, comunque questa si manifesti, senza alcun riguardo ad altra istanza che non sia quella del gusto individuale.

 

Sennonché dobbiamo fare i conti con un problema, anzi due. Essendo diventati infatti tutti eccezionali, da un lato c’è il rischio che la nostra differenza diventi indifferente e quindi frustrante, dall’altro che venga meno qualsiasi criterio di giudizio sui nostri comportamenti. Potremmo anche dire che il nostro vivere estetico è un vivere che funziona finché è veramente un’eccezione. Ma affinché questo sia possibile ci vuole un’idea di normalità che faccia da sponda, ponendo anche dei limiti. Non è normale far violenza a un innocente; non è normale torturare gli avversari politici; non è normale che un padre e una madre non si prendano cura dei figli; non è normale vivere nella povertà più estrema; non è normale governare nella più assoluta irresponsabilità; non è normale imporre con la forza la propria idea di normalità; non è normale che la normalità coincida semplicemente con ciò che viene considerato normale dalla maggioranza. Esiste insomma una misura della normalità che non dipende da noi, dai nostri gusti, né dalla statistica, bensì, aristotelicamente, dalle cose stesse, diciamo pure dalla “natura”.

 

A partire dai greci, è precisamente sul concetto di natura e di natura umana che la cultura occidentale ha cercato di trovare la suddetta misura. Ma oggi anche la natura umana è diventato un concetto controverso. Preferiamo parlare non a caso di “costruzione”, “antropopoiesi”, di qualcosa quindi che non è “dato”, ma scaturisce dalla ragione, dalla libertà, dalla storia, in una parola, dalla umana cultura. Per di più anche la natura, al pari della normalità, è servita spesso a bruciare gli eretici, a stigmatizzare le diversità, o a mandare in manicomio i dissidenti politici. Eppure è solo illuminandosi reciprocamente che natura e ragione possono ricostruire una normalità condivisa. Il tempo in cui si cercava di dedurre la normalità, quindi le norme, dalla natura è ormai passato (per fortuna!). Non possiamo tuttavia considerare un successo l’odierna dissoluzione della normalità nell’eccezione. Non si può scindere la libertà dalle sue condizioni naturali e storico-sociali; allo stesso modo non si può immaginare un approccio alla natura che non trovi nella ragione, nella libertà e nella storia il tramite, attraverso il quale la natura, diciamo così, ci si schiude. Se vogliamo evitare le secche del riduzionismo “eccezionalista” e di quello “naturalista”, non abbiamo scelta: dobbiamo salvaguardare e riconciliare tutti i corni del dilemma. Per dirla con le parole di Giacomo Leopardi, “la natura vuole essere illuminata dalla ragione, non incendiata”. Ma anche la ragione vuole essere illuminata dalla natura; anche la libertà e la storia illuminano e vogliono essere a loro volta illuminate dalla ragione e dalla natura. Del resto nessuno di questi termini è un semplice “dato” che possiamo reperire allo stato puro.

 

Fatta salva dunque l’illusorietà di qualsiasi pretesa di ritornare a un’idea di normalità dedotta dalla natura, abbiamo pur sempre bisogno di riaffermare un limite, una misura per la nostra vita individuale e sociale, qualcosa che sappia bilanciarne le esigenze. E l’idea di natura (e di “natura umana”) può ancora offrirci in proposito un valido appoggio. In gioco è il cuore stesso della cultura occidentale, ossia l’autonomia, la libertà, l’inviolabile dignità delle persone e il senso stesso del diritto. Se è vero, come ha mostrato Wolfgang Boeckenfoerde, che questo patrimonio culturale vive di presupposti che né la libertà, né l’autonomia, da sole, sono in grado di garantire, allora bisogna che ritroviamo un ethos, “legami” e istituzioni, capaci di riprodurlo. Come ha scritto con grande acutezza Friedrich von Hayek, “per paradossale che possa apparire, forse è vero che una società libera che ha successo sarà sempre, in gran parte, una società attaccata alle tradizioni”. Pertanto solo una socializzazione ispirata a questo ethos può farci sperare in un futuro meno preoccupante per la nostra cultura in generale e per la nostra cultura politica in particolare. Diversamente periremo forse di eccezionalismo autoreferenziale; non riconosceremo altri limiti, se non quelli che noi stessi, per calcolo o per utilità, ci siamo dati; l’idea di qualcosa che valga di per sé, incondizionatamente, ci diverrà sempre più incomprensibile; gli altri ci appariranno sempre più estranei e nemici; quanto ai conflitti, vera linfa vitale di ogni liberaldemocrazia, degenereranno probabilmente in spietate guerre per bande senza limiti. A meno che non si riprenda seriamente il discorso su quella che è stata un po’ la grande “normalità” occidentale (greca, ebraica, cristiana, illuminista): la sola che abbia consentito, non soltanto di gestire e di tollerare le eccezioni, ma di valorizzarle. A caro prezzo, poiché sappiamo tutti quanto sia costato imparare questa “normalità”. In ogni caso l’ultima cosa che dobbiamo credere è che si possa vivere decentemente, ossia “umanamente”, in un mondo dove tutte le “eccezioni” siano ugualmente possibili.

 

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