L'intervista della domenica

Anche gli amanti, nel loro piccolo, si sposano

Simonetta Sciandivasci

Cosa c’entrano l’amore con la felicità, i manuali con la letteratura, i pasticciotti con gli scrittori, Tor Tre teste con Torpignattara, la borghesia con la periferia. Conversazione con Yari Selvetella

Ho conosciuto Yari Selvetella mentre quasi si strozzava con un pasticciotto leccese, in Puglia, un pomeriggio di due anni fa. Dovevo presentare il romanzo con cui era in dozzina allo Strega, “Le stanze dell’addio”, dove aveva raccontato la malattia e poi la morte della sua compagna. Anche per questo, ma non solo per questo, non mi aspettavo che fosse un uomo così divertente, buffo, vivace, persino teatrale. Uno scrittore te lo aspetti sempre serioso, cupo, distante. Soprattutto, e credo che valga in particolare nel nostro tempo, ti aspetti che incarni i suoi libri, porti il segno del loro umore sul volto. Lui no. Lui mangia i pasticciotti due a due, fa l’autore per Linea Verde, ogni tanto su Facebook spunta una sua foto al mercato del pesce di Taranto, o in un faggeto. L’anno scorso era ancora meglio: alle sei del mattino intervistava poeti per UnoMattina, poi scriveva interviste alle merciaie e alle cuoche e agli sbandieratori e agli inventori, poi il suo libro.

Questa commistione e questa distanza sono una specie di destino che tocca ai suoi libri, soprattutto agli ultimi due. In molti lessero “Le stanze dell’addio” come un manuale d’autoaiuto per superare il lutto, e lui venne spesso interpellato e consultato dai giornali come un esperto, e dai lettori come un consigliere. “Le regole degli amanti” (Bompiani), in libreria dal 10 settembre, invece, in molti lo leggono come un manuale per non sciupare una relazione clandestina. I protagonisti, Sandro e Iole, un uomo di mezz’età insoddisfatto ma non sofferente e una trentenne in piena fioritura, s’innamorano e decidono di non stravolgere le loro vite, di non entrare uno in quella dell’altra, e di lasciare la loro relazione incontaminata, pura, assoluta e, naturalmente, clandestina – entrambi sono sposati, genitori, compiuti altrove, con altri. Per trenta, lunghissimi anni.

Ho osservato con grande divertimento come da settimane prima che il romanzo uscisse, le riviste femminili abbiano cominciato a proporlo come un decalogo, a fare di Selvetella un dottor Stranamore (non quello della bomba, l’altro). È qualcosa che capita sempre più spesso agli scrittori: diventare un tratto di quello che pubblicano, della parte più facile, più digeribile, più convertibile in eserciziario, e prolungare quella parte, farla vivere, farla lavorare oltre il libro. Alcune trame offrono un mestiere, un ruolo, un’identità agli scrittori, che lo vogliano o meno, che ci marcino sopra o meno. Stavolta, però, l’operazione mi sembra sia stata aiutata dal titolo.

Indotta?

So che sembra un’operazione di marketing. Se lo fosse, lo rivendicherei. Ma così non è: il romanzo è nato con questo titolo. Nel senso che prima è venuto il titolo e poi il romanzo. Avevo molto chiaro in testa che cosa volevo scrivere. Non mi era mai successo prima.

Le hanno chiesto cos’è l’amore, come si tiene in piedi un matrimonio, tradire sì, no, come. Inevitabile ma pure fuori fuoco, perché credo che il suo sia un lavoro sulla felicità.

La parola felicità sta nella prima pagina del libro: non è una scelta casuale. Ed è una parola che va maneggiata con cura, dice di una tentazione difficile da arginare, e di un’emozione impalpabile. Sta lì, in apertura, perché volevo che il romanzo cominciasse con un tema, che tuttavia il lettore perde già dopo qualche pagina, perché la storia ha tanti livelli e tanti travestimenti. Molti direbbero che il tema del libro è il tradimento, che invece è esplorato pochissimo. C’è un'architettura di fatti che probabilmente sovrasta il cuore del romanzo, che resta interrato, e magari si avverte e basta, e si scoprirebbe chiaramente a una seconda lettura, quando si sa come andrà a finire. Si tratta di un modo di scrivere e raccontare che ho adottato anche ne “Le stanze dell’addio”, dove c’erano fatti dolorosi, dietro ai quali stava il senso che avevo voluto dare al libro: raccontare la sopravvivenza. In questo caso, la relazione extraconiugale non è il tema ma il quaderno, il foglio.

A Vanity Fair ha detto che per lei vale quel che dice Cercas: “Il romanzo è il genere delle domande”. In questo qual è la domanda?

Se esista la possibilità di coltivare una idea di felicità attraverso l’amore. Un tema adolescenziale, me ne rendo conto, e mi è sembrato giusto declinarlo in questo contesto perché le relazioni amorose sono quelle che agiscono su di noi facendoci perdere le nostre convinzioni di adulti. Ho tentato di produrre un abbrivio attraverso venti contrastanti. I protagonisti hanno una spinta verso una direzione ideologica del loro rapporto, e d’altra parte sono mossi dalla grande forza della realtà con tutte le sue disconnessioni, i suoi inciampi, le sue richieste.

Dentro la forza della realtà include anche la pressione sociale?

Questo è il mio primo romanzo borghese. È un divertimento che mi sono voluto concedere e anche una ripicca e una liberazione. In molti, specie borghesi e piccolo borghesi di tutta Italia, vengono a Roma a scrivere di proletari romani. Abitano due mesi al Quadraro e pensano di aver capito la città, e pubblicano affreschi urbani e trattati socioculturali. Raccontano le periferie come se fossero un’unica cosa, mentre Centocelle non è Tor Tre Teste e Tor Bella Monaca non è il Pigneto. Roma è un collage di milioni di schegge che non fanno mai una superficie liscia: bisogna toccarla come se fosse un codice braille, un segno alla volta, lentamente. Così, ho preso piccoli tasselli della città e mi sono addentrato in un’ambientazione piccolo borghese, per sottrarmi dalla tentazione di parlare di Roma, di chiarirla. Nella dialettica che c’è tra le grandi periferie e gli intellettuali, i giornalisti, diciamo pure le classi dirigenti, c’è una categoria che non incontro più: i romani delle periferie. Succede perché l’ascensore sociale è fermo da anni e perché non c’è interazione tra le comunità e i quartieri. Ho sempre avuto a cuore il racconto della mia città, ho sempre cercato di proporne uno che non fosse ideologico, ma stavolta volevo essere libero da questa preoccupazione, che a volte diventa soverchiante.

Però Roma è la casa di questo amore, e lei la racconta, la descrive com’era negli anni in cui è ambientata la storia, il trentennio che va dall’89 all’anno scorso. 

Forse perché Roma è il filo rosso del mio lavoro. E può darsi che la ragione sia la sicurezza che mi dà. Voglio dire che quando racconti una storia devi maneggiarne almeno un elemento in maniera magistrale, devi avere almeno un appiglio. Roma è il mio. Sconsiglio, per intenderci, a uno che ha fatto una bellissima vita in una famiglia contadina di provincia, di scrivere di una ragazza con disturbi della personalità nata in una famiglia alto borghese del Marais di Parigi.

Cos’ha di bello Roma? 

È una città sconosciuta. Perché si squaderna, ma non si mostra. Ognuno pensa di averla colta, ma basta girarla avanti e indietro, in modo circolare, per capire che non è così, che è infinita, che mettersela in tasca e decifrarla è quasi impossibile.  La cosa che meno mi convince di questa distinzione molto in voga tra Roma nord e Roma sud è che non dà l’idea della sua circolarità.

 Naturalmente, ci sono dei momenti in cui Roma mi sembra di conoscerla e di averne abbastanza, e allora mi irrita. Subito dopo, però, mi sento orfano e mi dico: se ho capito Roma, cosa mi resta da capire?

Al protagonista del suo libro, Sandro, scrittore d’insuccesso, fa dire che Proust aveva ragione: un vero scrittore dice una cosa soltanto per tutta la vita, e che se questo vale per i grandi autori, figuriamoci per i falliti. È per questo che le fa così tenerezza?

Ho voluto e voglio a Sandro un gran bene. E anche a Iole. Con entrambi sono entrato in conflitto, ma non li ho mai odiati. È vero che mi hanno intenerito. E credo che questa tenerezza nasca dalla soddisfazione di vederli tridimensionali: per me esistono. Ho segnato tutte le loro date, i loro incontri, li ho praticamente inseguiti per tutti i mesi di stesura del libro.

Per trent’anni, i loro, in salute, in malattia.

La verità è che non ho rappresentato un amore clandestino, bensì un matrimonio allo specchio.

Anche nel loro letto si è infilato. Senza vergogna.

Non è stata una scelta programmatica. È che seguendo questi due tizi, sono finito nel loro albergo. Quanto mi sono divertito. 

Qualche anno fa non le avrei fatto questa domanda, ma: le scene di sesso (e sono molte) le hanno creato imbarazzo a casa?

Ho deciso di correre il rischio. Non puoi sempre metterti a riparo da tutto. Che cosa scrivo a fare se non mi metto in pericolo, a nudo, in gioco?

Peraltro sono scene molto ben scritte, cosa rarissima.

Per me scrivere è anche un’attività erotica. E questo credo dipenda dal fatto che mi sono innamorato della lettura grazie ai classici dell’erotismo allegati all’Espresso, che trovavo a casa quando andavo alle scuole medie. Ricordo ancora l’estasi che provai quando lessi “Il delta di Venere” di Anais Nin. Pensai: accidenti, se i libri sono questa cosa qui, voglio leggerli tutti! E non smisi più.

Come sta l’animale che si porta dentro?

Invecchiato.

Le piace invecchiare?

Ho una percezione bizzarra della mia età, da sempre. A 28 anni mi sentivo un vecchio, a 32 un pischello.

Con gli anni il senso del dovere aumenta o diminuisce?

Diminuisce.

Quindi si diventa più liberi?

Non credo. Di fatto, le energie diminuiscono e allora ti mancano le forze per andare a prenderti ciò che per anni hai voluto.

Ci vuole un’altra vita?

Non credo. Io non faccio tanto testo perché le persone in genere hanno un ciclo, specie i maschi, che restano a lungo ragazzi che giocano a calcetto il giovedì. Poi la compagna resta incinta e pensano “non potrò giocare a calcetto il giovedì!”. 

La letteratura è una seconda chance?

Se fosse così, i libri non basterebbero. C’è un momento molto bello, per me, quando comincio a scrivere un romanzo, ed è quando accantono la ponderazione delle cose, degli elementi che più o meno vorrei raccontare. Per questo i personaggi li vedo come una forma di coltura: semino e poi osservo una pianta che cresce, che mi riserva delle sorprese. Come nella lettura. In fondo, scrivere per me è una forma amplificata di lettura, una droga più forte. Allora ribalterei la cosa che si dice spesso dei personaggi che ti parlano: è un’idea medianica dello scrittore che ho sempre trovato fuorviante, ridicola. Spio in questa mia creazione come se ci fosse qualcosa da scoprire non tanto sui personaggi quanto su di me.

Ha descritto il desiderio femminile in maniera sorprendente. Come ha fatto?

Azzardo una risposta da psicanalista: da bambino, quando nacque mio fratello, ero ossessionato dal terrore di perdere l’amore di mia madre, quindi cominciai a fare di tutto per capire cosa la rendeva felice, cosa le piaceva, per offrirglielo. La curiosità su cosa accende le donne credo di averla ereditata da quegli anni.

Mi piace molto anche il fatto che Iole non sia la parte debole, che non investa la relazione con Sandro di aspettative diverse dal godimento. Prende il sesso dal sesso, l’amore dall’amore. Lo ama senza ragioni. Lui, invece, la ama per realizzarsi, a volte forse anche per trovare conforto. Non le darò del femminista, però Iole è un personaggio femminista. 

Non amo gli uomini che fanno dichiarazioni femministe, rubano alle donne il ruolo da protagoniste e si appropriano delle loro battaglie, che a me piace osservare, e dalle quali mi faccio arricchire e cambiare lo sguardo, anche entrandoci in conflitto. Le persone sono quello che fanno e non quello che dicono di essere. Iole non è una donna raggirata, né una mantide: le polarizzazioni sono utili alla narrazione maschile della donna.

Si dice che in giro c’è la recessione sessuale.

Non amo parlare di come sono i giovani d’oggi, ma noto che mentre noi eravamo ossessionati dal femminile e non c’era nulla della nostra vita che non fosse collegato al desiderio di conoscere una ragazza, oggi mi pare che gli adolescenti mettano il sesso tra le altre cose, a pari importanza con molte altre esperienze della loro vita. Lo trovo sano. Temo anche, però, che succeda perché non si vuole investire troppo sé stessi:  l’amore è dirompente, ti squarcia, ti trasforma.

Lei ha scelto due personaggi di un altro tempo, di una generazione diversa dalla sua.

Sì, hanno quasi l’età dei miei genitori. L’ho fatto perché con quella generazione mi sento in credito: noi nati negli anni Settanta, da adolescenti credevamo molto in quello che avevano fatto i nostri genitori, solo che a un certo punto anche loro hanno scoperto il disimpegno, si sono illusi che la storia stesse finendo e hanno cominciato ad ambire soltanto alla casa al mare, alle vacanze, alla bella macchina. E noi che credevamo di avere genitori tosti, combattenti, ci siamo ritrovati davanti dei fratelli maggiori un po’ stronzi. Ci si è liquefatto in mano il Novecento.

Nella politica crede ancora?

Sì, ma non in quella che si fa oggi. Io la intendo come crescita della nazione, idea di intervento sulla realtà, militanza.

I miei personaggi nel privato riproducono uno slogan politico che da ragazzo mi piaceva tantissimo e che poi, crescendo, ho trovato incredibilmente fatuo: “Cosa vogliamo? Vogliamo tutto”. Sembrava così bello, appassionante. Poi è successo che abbiamo pure noi quasi tutti preso a volere la casa in campagna e in città, la moglie e l’amante.

Iole e Sandro li amo proprio per questo retaggio. Si conoscono nel 1989, non un anno qualsiasi. Ed è come se dovessero reiventare una loro dimensione nel loro rapporto tra personale e politico.

Perché le “regole”?

Tutti i rapporti sono normati. Esiste un codice civile, esistono le prescrizioni religiose, non esiste un rapporto in cui non si dica cosa puoi fare e cosa no. Non capisco perché tutti mi dicano che l’amore non dovrebbe avere delle regole.

Forse perché confondiamo amore e passione?

Sandro e Iole hanno l’obiettivo adolescenziale di mantenere la passione per sempre. Si capisce strada facendo che il loro amore lo rendono possibile le relazioni che entrambi hanno a casa ancora di più delle regole che si danno.

Con amarezza, ho fatto dire a Iole a un certo punto: "quanto ci ha fatto bene l’ipocrisia". È un'ammissione molto dolorosa. Ma vera. 

Di cosa deve avere paura uno scrittore?

Di fare libri brutti.

 

Le regole degli amanti" sembra un libro da autogrill, invece è complesso, più del precedente, che era un altro osso duro. 

Per me è fondamentale essere compreso non dai letterati ma da chi ho intorno, però questo non è mai stato, per me, un motivo per abbassare in maniera vertiginosa il livello della lingua e del mio lavoro. Se lo facessi, sarebbe classista e, soprattutto, mi contraddirebbe. Scrivo per il ragazzo di Tor Bella perché sono stato un ragazzo di Tor Bella, e mi rendo conto che questa è una petizione di principio, perché non sono più quel ragazzo. Sono convinto che la maggiore difficoltà che incontrano oggi i non lettori sia di tipo tecnico: sono disabituati a leggere. Mia nonna al Tiburtino terzo era un’avida lettrice di Oscar Mondadori, all’interno dei quali c’erano grandi capolavori, c’era Caldwell, che passava per autore di “gialletti”. È un’illusione pensare che sei scriverai in modo più semplice, ti capiranno di più.

E allora, quoi faire?

Credere nella letteratura. 

Pernacchia. 

E perché? Là fuori c'è gente che crede a cose curiose come Dio. Se credi in Dio, puoi credere anche nella letteratura. 

 

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