Una fila di auto si dirige verso lo Stars & Stripes Drive-In Theatre di New Braunfels, in Texas (in questa pagina, foto di Mikala Compton/Herald-Zeitung via Ap)

Sotto il cielo del Texas

Marco Archetti

“Una Cadillac rosso fuoco” è una storia ispirata al mondo folle dei drive-in, quello fatto a forma di parcheggio. Raccontata con la consueta irriverenza di Joe R. Lansdale

In principio fu una mosca spiaccicata, e in realtà questo è tutto, per i joelansdaliani della prima ora non servirà aggiungere altro perché c’è solo un’opera che brilla di luce originaria e sfolgora di esattezza metallica e angolare, solo un’opera a cui tornare con le lacrime agli occhi di chi ricorda il momento in cui stava per scoprire qualcosa che avrebbe amato incondizionatamente, e che, da lì in avanti, avrebbe rappresentato alla perfezione quel canone – il canone, appunto, lansdaliano. E’ stata pubblicata dall’editore Fanucci nel 2002, in copertina presentava l’insetto spappolato e si intitolava “Maneggiare con cura, antologia di racconti”. Presentava al lettore italiano non solo un soddisfacente compendio di tutto ciò che Lansdale aveva scritto fino a quel momento, ma un universo già autosufficiente e fitto di riferimenti destinati a diventare familiari; insomma, un primo numero che era anche un numero primo. Composta da quindici racconti tratti da cinque raccolte pubblicate all’epoca solo negli Stati Uniti, prima della sua pubblicazione erano usciti giusto un Urania nel 1988, “La notte del drive-in”, seguito nel 1994 da “Il giorno dei dinosauri”, poi forse qualche altro racconto sparso, ma niente di che. Fino a quando, come spesso succede, è arrivato il momento. Il momento giusto per “Maneggiare con cura”, antologia prima e irrinunciabile non solo perché contiene vere perle della sgargiante bigiotteria lansdaliana (il poderoso “Girovagando nell’estate del ’68”; lo strampalato e carveriano “Un signor giardiniere”; il lynchiano “Nel deserto delle Cadillac, con i morti”; l’assurdo macabro-logorroico pre-tarantiniano di “Una serata al drive-In”) quanto perché, a un certo punto, arriva quello splendido saggio intitolato “Eccitarsi per l’horror: emozioni a basso costo, con una digressione filosofico-religiosa” che, insieme al precedente “L’inferno visto dal parabrezza”, srotola davanti agli occhi del lettore, in poche pagine incredibili, tutto il panorama emotivo lansdaliano. Parte così: “E’ difficile dire con precisione dove tutto è cominciato, questo amore per quel terzo mondo del cinema, i film dell’orrore di serie B a basso costo…”, e poi vola via con la consueta leggerezza, raccontandoci che viene nientemeno che dalla Bibbia e dall’Antico Testamento, quell’amore per il terzo mondo visivo di Roger Corman, per “Gli invasori spaziali” e per tutti gli Zombie immaginabili. Ovviamente la ricostruzione di Lansdale non è né filosofica né religiosa, anzi, è squinternata, spavalda e trivialoide, ma brilla, brilla per franchezza turpiloquente e garrula irriverenza, e ha l’indubbio pregio, attraverso il ricordo del primo drive-in della vita – il Cozy di Gladewater, Texas – di rivelarci cosa ci sia dietro alla passione per un mondo che stava nascendo e che avrebbe segnato un’epoca, un’epoca fatta apposta per finire dentro il frullatore di Joe R. Lansdale, scrittore perpetuo, eroico pisciapagine, turnista di se stesso.

 


Ai drive-in “vedrete sdraio piazzate nei cassoni dei pick-up, o vicino agli altoparlanti, con cowboy e cowgirl spaparanzati e lattine di birra che gli sbucano dalle mani” (Foto LaPresse)


  

“Mi manca quella possibilità di sedere sotto quel cielo del Texas, e mi manca l’atmosfera di festa, o meglio, di picnic, che avevano i drive-in”. Un mondo grande come un parcheggio enorme dotato di insegna al neon, uno schermo alto tre piani e un chiosco in concessione in cui gli hot dog sapevano di tubo di gomma, i popcorn erano indistinguibili dal cartone che li conteneva e le caramelle erano tanto vecchie che “i vermi dentro erano morti di diabete”. Un mondo che era molti mondi che si chiamavano “L’Apache”, “Twin Pines”, “Riverroad”, o quello, noto a pochi, di Turnertown, che proiettava film pornografici di fronte alla chiesa battista.

 

Il resto è notizia di qualche mese fa: i drive-in, come i morti viventi, stanno tornando in molti stati americani e chissà, forse a questo punto la smorfia di rammarico per la scomparsa di questo universo di filmacci e fauna umana sarà sostituita da un largo sorriso sul volto del nostro, non fosse che è stato il Covid ad avere riportato in auge il “cinematografo all’aperto” – così lo chiamava il padre dello scrittore, per lo meno prima che il punto fosse non tanto il distanziamento, quanto l’assenza di “tettuccio”, e del resto “cinema col tettuccio” era il modo in cui chiamava il cinema normale un altro mito sempre celebrato da Lansdale, il grande Joe Bob Briggs, titolare della rubrica di recensioni “Joe Bob va al drive-in” sul Dallas Time Herald.

 

Secondo i dati della United Drive-In Theatre Owners Association oggi sarebbero 305. Negli anni Sessanta erano 4.000, e lo spettacolo non era solo sugli schermi. “Vedrete sdraio piazzate nei cassoni dei pick-up, o vicino agli altoparlanti, con cowboy e cowgirl spaparanzati e lattine di birra che gli sbucano dalle mani, e ci saranno gli sfrigolii delle graticole per i barbecue e gli aromi delle grigliate di carne in volute di fumo che si stemperano nel limpido cielo del Texas. Ci saranno amanti distesi su coperte allargate tra due sostegni degli altoparlanti, e che ci danno dentro con tanto calore che dovrebbero andare fino in fondo e farsi pagare il biglietto. E c’è anche un sacco di azione dentro le automobili. Durante il percorso verso il bar un occhio attento può individuare le lune bianche di chiappe senza Levi’s che si alzano e abbassano a ritmo costante. Ciò a cui state assistendo è una strana sottocultura in azione. Per metterla in altri termini: i drive-in saranno pure folli, ma di certo sono uno spasso”.

 

Oltre a essere, quest’ultima frase, un ottimo autoritratto, il passaggio è davvero saliente perché dal drive-in Joe R. Lansdale non si è mai allontanato, anzi, ha sempre gironzolato da quelle parti, ha trasformato le sue pagine in un omaggio perenne e gli ha dedicato una bizzarra trilogia (“Drive-in”, in volume unico per Einaudi). Ha un ruolo fondamentale anche nell’ultimo romanzo, “Una Cadillac rosso fuoco” (Einaudi, pp. 263, €17,50 euro), briosa storiaccia che ha per protagonista Ed Edwards, un venditore di auto usate un po’ pirla, che mette gli occhi sulla donna sbagliata, un drive-in spompato e un cimitero per animali. Andrà come andrà.

 

Per fortuna il romanzo è superiore alle recenti prove dell’autore, le quali, sia detto con affetto, hanno lasciato un po’ a desiderare in termini di svecchiamento guardaroba, controllo del mezzo, freschezza atletica. La sensazione, ultimamente, è che Lansdale abbia trasformato il suo eccesso di disinvoltura in un marchio di fabbrica più che altro per supplire a certe carenze d’ispirazione, ma proprio qui sta il punto da cui si dovrebbe partire per non andare a finire male, per non deludersi e rischiare di non afferrare il mondo-Lansdale: al netto della sistematizzazione di tutta la sua opera, che si divide in generi, sottogeneri e sub-sottogeneri e spesso si innerva di contributi di cui la letteratura è, probabilmente, l’ultimo che conti qualcosa e che al nostro interessi, la vera grande capacità di Joe R. Lansdale non è la scurrilità creativa, la rimasticatura noir o lo spericolato incrocio post culturale di elementi impensabili – sempre piuttosto pasticciato se giudicato secondo criteri letterari ma godibilissimo se si adottano quelli da film low-budget. Il vero grande narratore che Joe R. Lansdale è, si rivela a pieno nelle opere in cui il genere prepondera meno, il che è curioso per uno che della “folle mescolanza dei generi”, per lo meno in certi pigri paratesti editoriali, risulterebbe essere l’alfiere incontrastato.

 

Insomma, a dispetto di ciò che comunemente si dice, quando non ci sono di mezzo misteri e grottesche sparatorie, ecco che spicca il grande narratore, ecco che trionfa lo storyteller. Che vince sempre anche quando non convince, perché si sa, chi legge questi suoi romanzi non troverà trame dalla tenuta perfetta; quasi mai incontrerà personaggi che custodiscono complessi grovigli interiori; raramente stramazzerà al suolo per il fragore dei colpi di scena. Ma allora, perché leggerlo? Perché troverà altro. E per mille buoni motivi: perché è generoso, perché ha un immaginario, perché ha un linguaggio. Perché ha un senso dell’umorismo debordante e sa tenerti lì, conoscendo alla perfezione gli ingredienti dell’incantesimo. E soprattutto perché, tra una scazzottata e l’altra, quasi inavvertitamente, potrebbero fare capolino perfino un po’ di poesia o un paesaggio inatteso, un’acqua lustrale in cui immergersi per intravedere, sulla sua superficie, il riverbero luminoso della Letteratura. La vera grande narrazione non premedita se stessa dalla prima all’ultima riga, e spesso si rivela nell’imprevedibile fulmineo che il narratore, per primo, incontra di sorpresa e solo in un secondo momento cavalca: il Joe R. Lansdale che merita di essere letto è tutto lì, è il Lansdale che sa fino a che punto assecondare se stesso, e credete, vi farà innamorare senza ritegno delle sue storie gioiosamente imperfette, barbaramente tragicomiche e allegramente sgangherate. E’ sempre stato a servizio di quelle, mai di se stesso. C’è di che essergliene grati.

 

Ora, non si vuole essere prescrittivi ma, a rischio linciaggio da parte dei fan più accecati, bisogna quindi ribadire che il meglio di Lansdale non lo si trova nella saga, pur esuberante e fortunatissima, di Hap e Leonard – siamo a quota tredici, tra noir divertenti (“Una stagione selvaggia”, “Mucho Mojo”, “Il mambo degli orsi”, “Bad chili”, “Rumble Tumble”, questi sì che vanno letti), accordi in minore (“Capitani oltraggiosi”, “Sotto un cielo cremisi”, “Una coppia perfetta”, “Bastardi in salsa rossa”, giusto per affetto), operine stracche (“Devil red”, “Honky Tonk Samurai”, “Il sorriso di Jackrabbit”, “Elefante a sorpresa”) e almeno una scandalosamente prescindibile (“Sangue e limonata”). Il meglio di Lansdale non lo si trova certo nelle opere più contaminate dai fumetti come “La lunga strada della vendetta” e “Assassini nella giungla”, o in quelle un po’ corrive nel mischiare tutto con tutto come “Fuoco nella polvere” e “Londra tra le fiamme” (maestosamente divertenti, sia chiaro, a patto di non cercare nessi logici). Il meglio non è nemmeno nelle antologie messe insieme senza specifici criteri perché tanto lui mischia, eccetera – “Altamente esplosivo” (Fanucci, 2010) è forse la migliore, dopo la prima. Il meglio non lo si trova nei thriller, godibili anche se non sempre paragonabili ai migliori esiti del passato quali “Atto d’amore”, “Il lato oscuro dell’anima”, “Freddo a luglio”, “Il valzer dell’orrore” (alcuni, poi, sembrano tradotti un po’ alla carlona, come “La ragazza col cuore d’acciaio” o “Echi perduti”). Il meglio è, semmai, nei romanzi di ambientazione western, come “La morte ci sfida”, “Il carro magico” o l’epico “Paradise sky”, splendida storia del cowboy di colore Nat Love. Il meglio è nell’indimenticabile “L’anno dell’uragano” e nei romanzi di formazione, imparentati solo alla lontana col giallo o l’avventura, come “L’ultima caccia”, “In fondo alla palude”, “La sottile linea scura”, “Tramonto e polvere” (il primo capitolo lansdaliano più epico di sempre), “Cielo di sabbia”, “Acqua buia” e “La foresta” (abbandonatelo a metà se ci riuscite). Il meglio è in tutti quei romanzi in cui Lansdale sembra sciogliersi dagli obblighi della lansdalitudine per abbandonarsi al piacere di raccontare il mondo dei suoi genitori, della Grande Depressione, in un Texas ancestrale puro e violento, squassato e moraleggiante, crudo e sciupato. Quando, cioè, si dà carta bianca e fa i conti con i sentimenti e le stagioni della vita.

 

Quanto ai retrocopertina dei suoi romanzi, nei quali si è sempre consumata la più schematica delle saghe del “tra” – tra Mark Twain e Jack London, tra Harper Lee e Steinbeck, tra Stephen King e Faulkner –, be’, niente di più fuorviante: se esiste un autore che non occupa terre di mezzo è proprio Lansdale. Che è se stesso, coi suoi difetti e i suoi pregi, e solo questo conta. Un po’ come quando quei ragazzi degli anni Sessanta andavano al drive-in e il film non era solo il film ma i popcorn cartonati e la ragazza in compagnia della quale lo si vedeva. Per noi che leggiamo e amiamo quelle pagine, è come esserci stati, è come non essercene andati mai. Non sembra anche a voi di sentire Joe che, mentre stappa una Coca, tra sfrigolii di barbecue e i titoli di testa che partono, dice: “Il cielo texano sopra di me e la legge di Joe Bob Briggs dentro di me”? Sì, quel Joe Bob Briggs. Proprio lui, che scolpì l’eternità con i versi: “Finché resterà un solo drive-in sul pianeta terra faremo festa come animali nella giungla / balleremo fino al voltastomaco / perché il drive-in non morirà mai, Amen”.

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