La poesia di Anna Maria Carpi, ovvero la monotonia come ispirazione

Matteo Marchesini

Il nuovo libro “E non si sa a chi chiedere” è un'opera che si gioca tutta su pochissimi caratteri tematici e formali 

Alla parola “monotonia” diamo quasi sempre un significato negativo. Anche in estetica. Eppure artisti notevoli e spesso grandi l’hanno eletta a musa. La loro opera si gioca tutta su pochissimi caratteri tematici e formali. Restano inchiodati a un’ossessione, oscillano tra gli stessi poli. Se il nocciolo poetico è solido, e inconfutabile come un’impronta digitale, allora la serialità può essere feconda. Si pensi a Giorgio Morandi, o a Sandro Penna. Nella poesia contemporanea italiana si contano tre casi rilevanti di questa monotonia: uno, il più penniano, è quello di Patrizia Cavalli; gli altri portano i nomi di Umberto Fiori e di Anna Maria Carpi.

  

Della Carpi è appena uscita per Marcos y Marcos una nuova raccolta, “E non si sa a chi chiedere”. Il titolo, come il precedente “E io che intanto parlo”, suggerisce l’idea di un discorso già iniziato, che s’interrompe e torna ad affiorare; ed esemplifica bene, col suo settenario sdrucciolo e lo stile colloquiale, il modo in cui la poetessa tenta di far coincidere il verso e la frase del parlato. E’ un tratto che ha in comune con Fiori, con cui condivide anche il motivo esistenzialista del soggetto che vorrebbe sfuggire alla propria identità precaria fissandosi in un ruolo. Alla Cavalli la Carpi è legata invece dalla messa in scena di un io infantile, perennemente assetato di attenzioni, che su un set casalingo o urbano interroga i classici e le divinità con la disinvoltura con cui si consulta un oroscopo. Tutti e tre gli autori inventano uno spazio teatrale. Nelle due donne è meno astratto; ma i loro personaggi si esprimono in maniere molto diverse. Mentre quello della Cavalli è sballottato tra euforia e disforia, che si riflettono in un dettato tenuto spavaldamente sopra le righe della prosa, la Carpi dichiara anche i sentimenti più estremi in un tono lievemente depresso e interlocutorio, continuando ad allineare con diligenza i suoi ritmi di madrigale quieto o di breve canzone. Perfino nei momenti di relativa stabilità, la Cavalli appare capricciosa, impaziente, o trasforma la calma in languore.

   

Nella Carpi, viceversa, perfino i passi più trepidi sono smorzati da un distacco quasi anaffettivo, o incanalati in una compostezza apollinea da Racine ’900. Nell’ultimo libro, il suo teatro si apre su un’esuberante fioritura primaverile. Tanta bellezza le sembra un tormento: “La natura! / Lo so che io non c’entro. / Io non sono natura”. Lo è innegabilmente il suo corpo, che però considera “la cosa più astratta che ci sia”, e la fonte della solitudine che a torto si imputa alla mente. Dei classici la Carpi mima la forma, ma non ha il carattere; né crede nell’armonia orientale tra cosmo e respiro. Si sente a casa solo nella “civiltà”, tra le luci condominiali, i caffè, i supermercati immersi in quel “Caro profondo tragico sensato / grembo d’Europa” che coi suoi artifici ci fa dimenticare la morte. Basta una “finestra di fronte che si accende”: “una, ma è tutto. / Gli altri gli altri. Gli ignoti. Ma ci sono!”. Questi altri hanno una funzione indispensabile; eppure sono comparse, meri sfondi al dramma dell’io. A differenza che nella Cavalli, qui l’umore non dipende infatti da una relazione intima. Fin da piccola la poetessa “sogna / l’amore: di nessuno / solo quello del mondo”.

  

Nella sua rappresentazione essenziale del narcisismo di massa, la Carpi osserva che se parliamo con qualcuno è per esibirci. Schiviamo l’attrito del dialogo. Un interlocutore deve esserci, ma è infinitamente sostituibile. A questo punto però sorge il dubbio: ci ascolterà davvero? Se ci somiglia, no. Come noi, aspetterà scalpitando che terminiamo il nostro monologo per riversarci addosso il suo. Il che spiega perché oggi “amiamo gli animali / come non mai, il tenero pre-umano / che non parla e non scrive”. Ma allora a chi può rivolgersi il poeta, quest’io romantico al quadrato? Tra le innumerevoli voci da cui siamo assediati, “chi sopporta questa piena / da uno solo, da un singolo? / Dov’è più il diritto di dire ascoltami?”. Quando la Carpi s’imbatte in un reading, che si svolge accanto a “un happy hour / con torta vino e snack”, le basta descriverlo senza commenti per restituire il senso di una futilità già avvolta dall’oblio. Questa tecnica dello schizzo eseguito con pochi tratti a matita si ritrova ovunque. Bastano due arredi di scena, un vestito o un brusio per evocare orde di turisti, bar della stazione, giovani coppie incomprensibili, ristoranti rurali truccati da locali fashion, vicini srilankesi, badanti cosacche… E un nome di via, citato al posto giusto, non limita il valore del quadro ma lo rende più universale. La realtà è vista con l’occhio dell’Italia media, cioè senile e insieme immatura, smarrita, abitudinaria. Quest’io sonnambulo, che aggiunge i giorni ai giorni fino alla dissolvenza, non ha forza sufficiente per fare il male o il bene: si lascia vivere ignavo, tiepido come gli esseri che Dio rigetta. “Io non so abitare / che la giovinezza / io nello zaino ho solo la speranza”, scrive da portavoce e critico di tanti suoi simili invecchiati nell’occidente del lungo Dopoguerra. A ottant’anni, la Carpi si specchia ancora in una ragazza mai cresciuta. Gli adulti veri vengono ormai da altri continenti. Non capiscono i nostri lamenti monotoni; ma se ne prendono cura con prontezza, in silenzio, come si fa con i cuccioli.

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