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Franca Valeri e le sue donne

Stefano Di Michele

Lode all'artista milanese e ai suoi personaggi femminili. “Ah, se la signorina Cesira e sora Cecioni entrassero in Parlamento”

Il 31 luglio del 1920 nasceva a Milano Franco Valeri. Per il centenario dell'artista riproponiamo l'articolo che scrisse Stefano Di Michele il 18 aprile del 2009.

 


 

Alla fine dell’articolo quest’annotazione sarebbe stata bene. All’inizio, sta benissimo. Perciò: Franca Valeri è un genio. E se l’occhio giustamente vuole la sua parte, pure l’intelligenza per fortuna qualcosa rosica, così che basta una visione in bianco e nero, un ascolto dei suoi monologhi, la lettura dei suoi libri e una qualsiasi intervista per arrivare all’inevitabile conclusione: un genio. Che ha inventato lingue e figure, curiosità e suoni, regie e riscrittura di opere. Prende Santippe, la vedova di Socrate, ispirandosi al libro di Friedrich Dürrenmatt, e la fa debuttare con queste parole, a cadavere di filosofo, diciamo, ancora caldo: “Morto che meglio non poteva”. Prende Cesira, la manicure milanese, e la presenta: “Si fa per dire… io sono manicure da uomo, sicché sono già una ragazza che viaggia piuttosto nell’articolo maschile…”. La Signorina Snob, stessa latitudine tra il Duomo e i Navigli: “Stasera no stellin, ho la Scala e neanche alle cinque perché ho il cocktail… ma come non lo sai, è tornato il Ciprianino dal Brasile! Cos’è quel ragazzo di inverecondo, ha lasciato giù la genitrice madre, ha portato su un serpente, no non scherzo, il serpentone Anselmo. E’ un cobra, di mezza età, devo dire una bestia divina, intelligente… guarda la televisione, vede e come, non sente per sua fortuna…”. L’inarrivabile signora Cecioni, praticamente una maschera tra il sociologico e l’istituzionale – perennemente al telefono con mammà, per l’utile e piuttosto per l’inutile, esattamente come oggi con i cellulari. Eccola alla ricerca del marito, a tarda sera non ancora tornato a casa. Mammà non sa che dire, “va be’ faccio un giro de telefonate, te saluto mammà, saluteme papà, e Maria, e Giuseppe… e la sora Visone se je bussi… un bacetto ai pupi… famme provà a chiamà l’ospedale, fusse la vorta bona”. Manco l’ospedale serve a qualcosa, “che hanno ricoverato quarcuno che s’è inteso male?… de cognome Cecioni de nome Giovanni?… ah, so’ troppi… ma questo se lo dovrebbe ricordà perché stava tanto bene, non è che ve capitino sempre…”. Nel vano cercare il consorte – ma senza mai mollare né il divano né la cornetta – la signora Cecioni fa l’estremo tentativo. “Madonna der Divino me tocca de chiamà l’obitorio… quello mammà l’ha sempre chiamato l’obitorio quanno che papà tardava, tanto affezionata… pronto, obitorio? Sor Mario, è lei?… Sor Mario, so la figlia de la sora Augusta, quella maritata Cecioni, che c’è niente pe’ noi?… Grazie come sempre, sor Mario… Be’, me sento un po’ fiacchetta co’ sto’ scirocco, e lei? sta bene? I pupi… cari loro… la signora?… Eh, ognuno c’ha la croce sua… tante cose, sor Mario, a presto…”.

 

 

Le donne di Franca Valeri sono un mondo, un intero universo di ironia crudele e di sottile, discreta e perciò più intensa commozione. La mamma possessiva uno, la moglie trascurata, l’invaghita che non capisce (“la donna, che buffa bestiolina!”), la moglie del tenore, quella che chiama l’architetto, la mamma ancora più possessiva due (che benevola e crudele dice al figlio, che le ha appena presentato la fidanzata: “Tu sai che non mi sarebbe affatto piaciuto che tu sposassi una donna molto bella perché tanto raramente la bellezza si accoppia all’onestà e, vista la figliola, sono certa di saperti avviato verso una vita serena”), la sarta romana, la cliente del dottore, la sorella, la progressista bene, la dama benefica, la mamma possessiva tre (“Professore carissimo, sono… è lei? Che vocione da eterosessuale, cos’è successo?… Ha la bronchite?”). C’è più racconto del mondo nelle facce e nelle voci che Franca Valeri ha messo in scena, che paccate di analisi sociologiche. Ora la sua voce, con la meraviglia di ottantanove intelligentissimi anni, a volte, trema. Ma mai sul palcoscenico.

 

Franca Valeri è borgesiana e (di certo) lo sa. “Io non ho mai capito questa storia della felicità irraggiungibile. Io sono felice decine di volte al giorno, per piccole cose: una telefonata, una cosa buona da mangiare, la faccia del mio cane, un vestito nuovo…”, ha detto. Scriveva il grande poeta argentino: “Non passa giorno senza che noi viviamo un istante in paradiso”. Pure un pizzico di saggezza orientale, nella sua arte: “Imitare Berlusconi è facile. Per costruire un personaggio che arrivi a suscitare la riflessione del pubblico ci vogliono diecimila modelli, non uno”. Franca Valeri può piangere per la musica, per una grande musica. Così, “quando un allievo chiese ad Arturo Benedetti Michelangeli come avrebbe potuto esercitarsi nello studio della pausa, il grande musicista gli rispose di ascoltare con attenzione gli sketch di Franca Valeri” – questo racconta Patrizia Zappa Mulas nella prefazione all’ultimo libro della Grande Signorina (“Di tanti palpiti. Divertimenti musicali”, La Tartaruga edizioni). Un libro sulla musica e sull’opera, “il melodramma è l’unica cosa al mondo che la fa sempre piangere – dice lei. Solo Verdi, Rossini, Bellini e Donizetti riescono a farle versare molte lacrime”. Lei dice poi che la musica è questo, “è aria, fremito, forse è Dio”. Ma è sempre e innanzi tutto, e sempre col massimo rispetto per le sette note, un libro (e come tutti i suoi imperdibile) della grande attrice. Non saggi musicali – e sì che ne saprebbe scrivere, e sì che potrebbe pure commuovere il lettore, volendo – ma i testi (“una introduzione buffa”) a pezzi di grandi compositori, andati in onda quando conduceva Classic Jokey su Radio Due e Di tanti palpiti (stesso titolo del libro) su Radio Tre. Anche questi piccoli capolavori d’ironia e di letteratura – pur se la Cecioni cede il passo alla Norma e la Cesira alla Traviata. Leggere (e poi casomai ascoltare – la musica) per credere e godere.

 

Si diceva: Franca Valeri è un genio. Potrebbe avere benissimo il Nobel per la letteratura (Dario Fo l’ha avuto, no?): un figurone, per le patrie lettere. Nell’attesa – e se il presidente Napolitano volesse pensarci, uomo di gusto e in gioventù pure di teatro – sarebbe una splendida senatrice a vita. Ha il merito, ha la classe (certi abitini di Capucci fanno sempre la loro figura, sartorialmente e istituzionalmente parlando), ha passione civile. E’ conosciuta, è stimata, è universalmente considerata una grande protagonista delle scene italiane. Con lei, farebbero un figurone tanto il Quirinale quanto il Senato. La senatrice maritata Cecioni, c’è da scommetterci, leverebbe la voce per nobilissime cause. Mancassero le cause (che poi abbondano), sai che studio di materiale umano, lì nell’Aula parlamentare. Dice: di che si potrebbe mai occupare la senatrice Valeri? Casomai, di cosa non potrebbe occuparsi! – come da resoconti estratti da pregevoli volumi quali “Toh, quante donne!” (Lindau) e “Tragedie da ridere” (La Tartaruga), così, a volersi documentare… Per dire, non va tanto la famiglia, oggigiorno – che uno meno ce n’ha e più ne parla in giro? Eccola al telefono col medico mentre chiede informazioni sulla salute della pupa: “Pronto, dottò? Senta, so’ la fija de… già m’ha riconosciuta? L’orecchio clinico, ho capito… Senta, dottò, sarà un’oretta che ce dovrebbe essere stata da lei la cognata co’ la pupa mia, si nun se so sbajate de mutua perché è fissata cor risparmio e dice che la sua è più a buon mercato: so’ tirate de famija, ha capito… je dovessero fa le punture cor punteruolo basta che è gratis… Come che vojo? Vorrei sapè come ha trovato la pupa… Nun je paciuta per niente? Embè, purtroppo è mi’ socera spiccicata, pora cocca. (…) Che se sta a spazientì, dottò? De che cià bisogno? De pijà aria? Ma che è un cappotto, scusi?”. Non stanno là dentro tutti a chiacchierare di piano casa? E chi meglio, allora, della Signorina Snob, che rispetto al venti per cento berlusconiano si era portata avanti di qualche metro? “Mi sono semplicemente adattata a studio un quarto di cantina, fa un po’ meditabondo come generetto non trovi? Ma niente, sono andata via di liscio, di un tranquillo, niente barocchi, liberty, art decò. Quelle cose lì ricciolente, ho fatto tutto un Pompeiano, però pre eruzione, che è il suo momento migliore”. E’ tutto un interrogarsi sul lavoro precario e sulla fatica proletaria?

 

C’è la sarta romana, che molto potrebbe dire, e infatti molto dice: “Madonnamia che cardo… che giornata! Me sento proprio male… Ciò du’ piedi gonfi come du’ cassette de garofani… so’ tutta appiccicata. Lungo? Je pare lungo ’sto vestito a lei? A me nun me pare. Signorina mia, quello a chi je piace lungo a chi je piace corto… Madonna che cardo, me sento proprio male… Sa che famo? Je lascio l’orlo imbastito, così se lo scorcia da sé come je pare… Che giornata! Ma che sarà mai? Ciò un male de reni… fosse n’antro fijo? Mejo n’artrosi”. E pure la signorina Cesira, manicure per uomini, che comunque ha già un suo certo aplomb istituzionale (“senta, scusi, distanze a parte, che a me non mi piace di pigliare il metro con nessuno, ma a me del te non me l’ha mai dato nessuno, senza un niente di autorizzazione”) e rammenta le esigenze della classe lavoratrice, “a me piace la mezza montagna perché è quel clima che alla ragazza lavoratizia ci fa meglio di tutto”. C’è da dire qualcosa sui problemi dei giovani, che nel sabato sera se non stanno impasticcati stanno imbirrati? Decenni fa – con gli strumenti dell’epoca – la senatrice Cecioni si poneva il problema: “Pronto, mammà? Che la camomilla è un barbiturico? No, perché siccome che me serviva che me dormissero i pupi jo fatto… mica jo fatto una tazzina da beve, jo fatto il purè. E certo che se so’ addormiti. Come sassi. Devo chiamà quarcuno? Poi se svegliano? Speriamo tardi…”. La globalizzazione, il perenne viaggio che muta in noia esistenziale, meglio non si potrebbe spiegare oggi di come lo spiegava la sua signorina milanese, estenuata ed estenuante: “La costa mi ha seccato, le isole si vedono sulle carte geografiche, in montagna si va su e si vien giù e si è ancora lì e la barba è completa, viaggi all’estero a piedi, in tradotta o in carriola ormai li fanno tutti, morale non so dove sbattere la testa e membra annesse”. Una sapienza, dunque, a maggior gloria del Parlamento tutto: quello della sora Cecioni o della Signorina Snob (“era veramente chic”) nel particolare; quello dell’attrice Franca Valeri in generale. Sotto quella frangetta, dietro quegli occhiali, quel sorriso tra l’ironico e il compassionevole, c’è molto della storia delle donne. Una surreale rappresentazione di vizi e limiti che ha reso le donne più forti, mica più deboli. Anche perché l’allegria rende più forti. “Guardi che le donne sono sempre le stesse, hanno solo cambiato vestiti”, ha spiegato recentemente in un’intervista a Grazia.

 

E non solo delle donne, parla Franca Valeri. Degli uomini, pure, e molto – che pure loro, quanto a comicità… Dice che del maschio le piace “il tipo di intelligenza. E il fatto che avere un uomo accanto può essere molto piacevole”. E in ogni modo, dopo un brivido di orrore di fronte a un gruppo di ragazze che organizzava un viaggo per sole donne, annota: “Bisogna ammettere che gli uomini sono un bel ‘trastullo’”. Perché Franca Valeri è (quasi) tutte le donne, ma non è una nemica degli uomini. La sua intelligenza non è mai indifferente, per niente faziosa, il suo sguardo rapido e su certi terrificanti fenomeni sociali assolutamente impietoso. “E’ diventato talmente volgare il mondo – ha raccontato a Repubblica – che è difficilissimo rappresentarlo. Io potevo metterci la pietà, oltre che l’ironia. La mia signora Cecioni mi suscitava simpatia: nella sua popolarità, ordinariezza più che volgarità, è intelligente”. La volgarità odierna la spaventa, ecco – che forse, come la stupidità consente tutto. “D’altronde trovo disturbante la mancanza di dignità” – anche. E sempre – lei che ne ha da vendere – ripete che il talento è timido, non invasivo, non vociante. Può essere ideale come senatrice a vita, la signora Valeri, perché è ideale anche come maestra (superbamente ironica, decentemente indignata) di vita.

 

Nelle prime pagine “Di tanti palpiti”, Patrizia Zappa Mulas fornisce il mirabile resoconto di come Franca Norsa mutò, nel ’47 il suo cognome. Doveva fare una piccola parte in una commedia. “Non verrà mai scritto Norsa sul cartellone di un teatro”, le fecero sapere. Lei vaga per Milano in cerca di un’idea. Vede un monumento equestre, schiena del cavaliere e chiappe del cavallo. Franca Garibaldi?, pensa. Per carità, fa troppo Risorgimento. Vede il Castello Sforzesco. Franca Sforza? Troppo medioevo. “E poi si sforzano solo i deficienti”. Incontra un’amica con un libro di poesie di Paul Valery. Ecco un bel nome. “Mi chiamerò Franca Valeri”. Nel 1929 suo padre l’aveva portata alla Scala a vedere l’ultimo concerto di Arturo Toscanini che si preparava ad abbandonare il paese ormai inguaribilmente fascista. “Il maestro Toscanini se ne andava da un’Italia che era diventata invivibile e in cui lei, figlia di un imprenditore ebreo intelligente, si preparava a crescere”. E non sarebbe stato facile, terribile piuttosto – con il peso delle leggi razziali di qualche anno dopo. “Ne sono uscita orgogliosa e contenta. Anzi, penso di essere una persona fortunata. E poi lo sapevamo che alla fine per chi si era macchiato di quelle atrocità ci sarebbe stata la forca”. E’ stata fortunata, Franca Norsa diventata Valeri – e poi Cecioni e poi Cesira e poi la Snob (ché dice molto più di un nome un’irritante propensione), e piuttosto fortunati anche noi nell’incrociare i suoi personaggi. Ce ne sono state e ce ne sono, di attrici comiche, ma è lei la più grande. Lei in scena (spesso) solo con la sua voce, lei che si scrive i testi, lei che posa gli occhi intelligenti sulle manie degli altri umani – “perché una cosa è fare delle imitazioni, io non ne sono capace e mi annoia, non mi diverte tranne in rari casi, altro è fare un personaggio, cioè qualcosa di vero che però ha quel tanto di surreale che passa e che diventa, non dico eterno, ma resta in qualche modo stabile, per cui ci vogliono tanti spunti, non basta imitare una persona, bisogna ricordarne centomila”.

 

Franca Valeri è una donna che si è molto divertita e ha molto divertito. Che ha vissuto ogni mutamento, persino la sora Cecioni a un certo punto aveva preso la piega contestataria, ma si sentiva che penava e si perdeva, poveretta (si sentiva che penavano e si perdevano pure altri contestatori, a dirla tutta). “Pronto mammà?… Te volevo dì… cioè stavo a pensà, ma nun me risponne subito a livello de casualità perché allora al limite nun me interessa manco una risposta si nun cià gnente a monte… Me stai a sentì?…Ennò, chiaramente nun me stai a sentì. Famme almeno aprì er discorso su la struttura de la nostra situazione, cioè casa tua uguale rapporto telefonico, mammà, perché ne la misura in cui me se presenta ’n’alternativa… Che stò a dì?”. Ha portato in scena non solo le sue donne, ma infinite altre, come le serve di Genet, o (ma il soggetto è sempre suo, ispirato dall’amato Puccini) quel delizioso film che è “Tosca e le altre due”, con la sua amica Adriana Asti – e lei e la Asti sono le altre due, Emilia e Iride, che discutono a pianoterra di Palazzo Farnese, mentre sopra va in scena in dramma: roba di sbirri e spie e tentate violente seduzioni… Il grande (esigente e caustico: degno pari grado) Ennio Flaiano che rideva ascoltando i suoi monologhi, Alberto Sordi, memorabile “cretinetti”, la cagnetta Camilla che mangiava il gelato nelle mani di Luchino Visconti, Vittorio De Sica, il Teatro dei Gobbi, suo marito Vittorio Caprioli, quel memorabile “Parigi o cara” dove lei è Delia, prostituta romana (ma s’intende, “una signora è tale anche se batte il marciapiede”), con incerti presupposti culturali, “il libro è un veicolo di polvere”, che arriva fino alla capitale francese, incontra suo fratello Claudio, arditamente mesciato, e in una scena ormai mitica ne scopre l’omosessualità – ché gay mica si diceva (“Ma che sei Claudio?”. “Sì…”. “Ma che sei tinto?”. “Sì…”. “Ma che fossi…”. “Sì…”). Roba da Almodovar in anticipo di qualche decennio.

 

Osserva centomila persone per tirar fuori un personaggio, Franca Valeri. Versa lacrime per il melodramma. Osserva con occhi commossi i suoi amati animali (e s’intitola “Animali e altri attori. Storie di cani, gatti e altri personaggi”, Nottetempo edizioni, uno dei suoi libri più singolari). E dicono al genio dell’attrice, le amate bestie, non meno degli umani che finiscono nel suo mirino. C’è il gatto Ernesto, “inutile accarezzarlo, Ernesto è altrove col cuore e con la mente. Il cattivo carattere è penoso prima di tutto per chi ce l’ha e non è neanche così facile definire in che cosa consista. Perché cattivo? Perché non fa comodo agli altri o a chi ce l’ha?”, e il suo collega Zeffirino, tutt’altra pasta, “ha la bellezza degli esseri felici. Tutto il suo essere sembra dimostrare che la felicità è congenita” – esattamente sono così, quadrupedi e bipedi, bestie e uomini. Un lungo elenco di amori extra umani, e peccato per chi non capisce, “del resto ho sentito giovani intervistati che ignoravano chi fosse Che Guevara, altri che fra Carlo e Luca Goldoni hanno risposto: ‘Beh, Luca me pare che l’ho sentito, quell’altro no’, quindi…”. E dunque non sarebbe – grande scrittrice, grande attrice, grande personaggio – una splendida senatrice a vita? Immaginate l’aula di Palazzo Madama, e il suo sguardo che si posa – curioso e micidiale – su ognuno dei senatori, faccia per faccia, mania per mania. Ne verrebbe fuori uno spettacolo che sarebbe l’esatta umana messa in scena della nostra democrazia. Ma magari Franca Valeri ha così tanto da fare – il teatro ogni sera, i cagnetti ogni giorno, una nuova opera già pronta – che la possibile noia potrebbe non compensare il grandissimo onore. Ma il presidente Napolitano avrebbe sicuramente l’ascendente e le parole adatte per convincerla – e non che i signorini snob (e a volte per niente chic) o le sore Cecioni (in entrambe le versioni, maschile e femminile) scarseggino su quegli scranni. Finalmente debutterebbe l’originale. “Ma guardi, lo dovrebbe avè notato perché tanto è biondo come io so’ bruna, so’ quei contrasti che chi ce l’ha ce l’ha. Pensi che quanno se semo sposati che semo usciti dalla chiesa s’è fermato er quartiere… Be’, vo’ sapè er dispetto de la natura? La pupa m’è uscita castana… M’ha preso dalla socera…” (e qui, come negli originali stenografici parlamentari, dopo l’intervento della senatrice maritata Cecioni, si troverebbe scritto: “Vivissimi, prolungati applausi a sinistra, al centro e a destra. I senatori si levano in piedi e applaudono lungamente”).

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