(foto di Maurizio Codogno via Wikipedia CC BY 4.0)

Il mondo incorniciato in un Altan

Simonetta Sciandivasci

Il politicamente corretto, il Brasile, i romanzi inglesi, la concisione, la buona creanza, Prodi, Salvini, ridere di niente, la timidezza, i vecchi eccessi. Conversazione con Altan

In una vignetta di Altan ci siamo finiti tutti, almeno una volta nella vita. Che onore, e che sberla. Ci disegna da quarant’anni e più, i suoi sono ritratti che ragionano al posto nostro, editoriali, a volte profezie.

 

Ci vediamo in una sua vignetta e ridiamo, annuiamo, ci vergogniamo e naturalmente ci perdoniamo. Sempre. Perché siamo italiani, e l’autoassoluzione è il nostro più grande talento, ma pure perché in Altan non siamo mai spacciati, né soli: lui è con noi. Non ci osserva da antropologo, ma da amico o, se preferite, da affine. Da un Altan nessuno può prendere le distanze, non noi, non lui.

 

In Ada, Trino, Cipputi, Italo, Colombo, l’Armando, e tutta la sua banda di personaggi che adesso ricorrono sempre meno, sostituiti da uomini e donne comuni, ci siamo tutti. E nessuno si sente offeso. Mai. 

  

Lei è incontestabile. Come fa?

Non saprei rispondere. Sto attento. Sono sensibile ai cambiamenti. Cerco di far valere quello che conta per me quanto quello che conta per gli altri. E ho un grosso vantaggio: il tempo. Tra la cosa che penso e quella che scrivo ho sempre il tempo di pensare, posso sempre rivedere, correggere. È un privilegio che chi parla non ha: parlando, alcune accortezze possono sfuggire per  disattenzione, goffaggine.

  

Il politicamente corretto ha fatto anche cose buone?

L’acredine sul politicamente corretto non l’ho mai capita, né condivisa. In fondo, credo sia una forma di educazione. Sono certo di aver imparato a non dire alcune cose non per autocensura, ma perché mi sono reso conto che dirle era orribile: perché continuare?

Non le capita mai di sentirsi oppresso dall’irritabilità di tutti? Lavora con la stessa tranquillità con cui lavorava dieci anni fa? 

Lavoro come ho sempre lavorato. Dieci anni fa non notavo la pericolosità o la sgradevolezza di alcune parole, di certi appellativi: ora sì, ed è un bene, è giusto.

Ho imparato a sentire con il tempo la stonatura di certi discorsi e non mi importa difenderli, neppure al bar, neppure tra amici: ci sono cose che non dobbiamo dire e basta. Perché sono orribili. E non aggiungono niente: al massimo, deformano. 

Non ha mai paura di essere frainteso? 

Ho più paura di esprimermi male. Si lamentano tutti di non venire capiti, e mai nessuno pensa che, quando accade, la colpa è anche di chi comunica, non solamente di chi ascolta. 

Questo stato di correzione perenne in cui siamo è rivoluzione, restaurazione o soltanto distruzione?

Non vedo nessuna rivoluzione. Si sono soltanto imbestialiti tutti, liberandosi di un limite che invece, per quanto fosse roba vecchia, aveva la sua funzione: la buona creanza. Le rivoluzioni hanno degli obiettivi, vogliono cambiare qualcosa per qualcos’altro. Qui non si sa chi vuole fare cosa, si distrugge tutto per tornare indietro.

Karl Kraus scrisse che l'origine è la meta. Benjamin trovò che descrivesse perfettamente come le rivoluzioni guardino indietro,  verso un sogno antico, primitivo.  

Karl Kraus era bravo, accipicchia.

Ma?

Ma l’origine è qualcosa di molto lontano e non sono sicuro che qualcuno abbia davvero idea di cosa possa essere.

Però che bravo era, Kraus.

  

Bravissimo, sì. Anche lei non scherza. Lo dicono tutti. Lei piace proprio a tutti. Anzi, di più: lei è amato da tutti. Se ne accorge?

Un pochino, sì.

 

Altan detesta parlare di Altan?

Una delle più grandi sofferenze della mia vita l’ho provata l’anno scorso, quando mi sono ritrovato a dover parlare di me davanti a una telecamera, per un film che è stato fatto sulla mia storia.

L’anno scorso il Maxxi le ha dedicato una mostra e lei ha detto all'Huffington Post che a finire in una mostra ci si sente vecchi. 

Mi è piaciuta molto, avevano disposto bene i disegni. C’erano begli incontri, bambini che giocavano dappertutto. 

Col microfono come se la cava?

Malissimo.

 

Con le chiacchiere?

Meglio ma vede: io amo ascoltare.

 

La radio le piace?

Eccome. Soprattutto l’ascolto quando leggono romanzi: mi godo la scrittura, dimentico la storia. Quando leggo sono concentrato su quello che succede, su come andrà a finire. Quando ascolto mi gusto il racconto, il modo in cui è scritto, le parole, le pause.

 

Ha mai pensato di trasformare un classico in un fumetto?

No, non è il mio mestiere. Dovrei restare fedele alla storia scritta da qualcun altro e io ho sempre lavorato per rovesciare gli schemi. Prima di tutto i miei. 

  

Viene prima il disegno o il testo della vignetta?

All’inizio mi capitava di fare un disegno e domandarmi cosa potesse dire quel soggetto specifico. Adesso no, viene prima il testo. Ho comunque imparato che su una storia non c’è modo di esercitare alcun controllo.

  

Lo dicono tutti gli scrittori: le mie storie hanno vita propria, vanno da sole. Ho sempre pensato che lei fosse prima di ogni cosa uno scrittore.

Non lo so. Quando lavoravo a storie lunghe, o scrivevo una sceneggiatura, dopo i primi due capitoli abbozzavo sempre un finale: mi serviva a esser sicuro di andare da qualche parte.

 

E come andava a finire?

Mi ritrovavo altrove. Sempre.

 

È molto romantico.

È il piacere di fare questo lavoro.

 

Si diverte a farlo?

Abbastanza.

 

Si commuove, anche?

No. Mi commuovono i film, perché sono grandi imprese di squadra.

  

Ha lavorato come sceneggiatore e scenografo. Le manca fare il cinema?

No, perché l’ho sempre fatto rivestendo strani ruoli. E poi è un lavoro pieno di pause, lentezze, dilatazioni. Mi piaceva però il fatto che si fosse in tanti.

  

Nelle sue vignette non c’è quasi mai progressione, movimento. Quella fissità la rispecchia?

Non cambio idea continuamente, o perlomeno non mi accorgo di farlo. Sto fermo perché da fermo si vedono meglio le cose. E si sta più comodi.

 

Ma non la chiamano Dottor Divago?

No, guardi, c’è un errore. Qualcuno in qualche intervista deve averlo trascritto male: Dottor Divago è il soprannome che si è data mia moglie, che è effettivamente una grande divagatrice. Io preferisco stare sul punto, e punto sempre ad arrivarci il prima possibile.

 

Pensavo fosse un gran viaggiatore, che le piacesse fantasticare. 

Non ho viaggiato tanto. Ho vissuto a lungo in Brasile, lì ho cominciato a lavorare, ho conosciuto e sposato mia moglie, è nata mia figlia. Per il resto poca roba. Sono andato a New York la prima volta soltanto due anni fa.

  

E come l’ha trovata?

Speciale. Me ne ero tenuto alla larga perché temevo quello che dicono tutti: che ci arrivi e ti sembra di conoscerla già. E invece non è vero. New York ha una sua forma inattesa, una sua vita inimmaginabile. 

  

Dove le piacerebbe andare ancora?

In Canada e in Australia. Tutti paesi grandi e un po’ vuoti.

  

E poco abitati.

L’uomo non è il massimo da vedere.

 

Eppure nelle sue vignette ci sono uomini e donne. La natura e l’ambiente intorno spariscono sempre di più.

Quando ho cominciato a fare questo lavoro ho avuto subito chiaro che mi interessava raccontare le persone. Volevo che i miei personaggi non parlassero tra loro, ma con i lettori.

  

Con la Pimpa, invece, si sbizzarrisce. Colori, movimento, sfondi, dialoghi: ci mette tutto quello che toglie altrove. Torna bambino.

È nata per mia figlia, l’ho inventata per lei. E forse pure per me, per tenermi uno spazio in cui tornare all’infanzia. Anche il mondo della Pimpa va per conto suo, ha una sua logica, e io non posso far altro che seguirla. 

  

Ci sa fare con i bambini?

Ho imparato qualche trucchetto. Quando vado nelle scuole e disegno per loro, capisco che il tempo che passiamo insieme ha funzionato quando mi dicono “come disegni bene la Pimpa”: significa che si sono dimenticati l’autore, l’ospite importante. Per loro conta solamente che io disegni bene. E anche per me.

  

Cosa la fa ridere?

Le sciocchezze. Le cose semplici. 

  

Con le sue vignette vuole far ridere?

Tutto quello che suscitano i miei lavori è involontario. Alcune vignette fanno ridere anche me, forse perché mi liberano. Lo humor è questo: avere un tono un po’ leggero e un po’ distaccato quando dici qualcosa che ti sta sullo stomaco.

  

A me fa tanto ridere quando racconta i mariti e le mogli. Su amore, lockdown e mascherine lei ha detto tutto quello che c'era da dire nella vignetta in cui lui sorprende lei a letto con un altro che indossa la mascherina, le chiede “lui chi è?” e lei risponde “scusa, credevo fossi tu”.

Quelle sono le storie in cui metto più di me, del quotidiano che ho intorno. In generale, comunque, non giudico mai da fuori, mi tiro sempre in mezzo.  

  

Lei è uno dei pochi capace di fare una critica assennata e divertente della mascolinità, e le assicuro che non le sto dando del femminista. Altrimenti non sarei qua. 

I maschi sono difettosi, e io sono un maschio. Mi viene bene per questo. Faccio molti sforzi per superare i miei limiti, ma è una fatica immane. Noi uomini veniamo da secoli in cui siamo stati dispotici, e ora per fortuna ci è richiesto di smettere di esserlo. Per farlo, però, la buona volontà non è sufficiente: si tratta di mettersi alle spalle un modo di agire che ci è stato trasmesso e si è consolidato per secoli. Ci vuole tempo. Ce ne vorrà ancora, e tanto.

Ma il patriarcato esiste o no? E quanto è forte? 

In Italia è esistito anche il matriarcato, e pure quello non lo raccomando. 

  

Ci vuole un’altra vita per vedere qualche miglioramento?

Ho una certa età, non mi aspetto granché. Però sono curioso e non pessimista, per la semplice ragione che l’uomo è dotato di spirito di sopravvivenza. Ed è sempre quello che, alla fine, lo salva, lo induce al cambiamento. Di quello che non riusciamo a superare con la volontà e l'impegno razionale ci libereremo con l'istinto.

Le facevano simpatia le sardine per adattamento? Voglio dire: a un certo punto sono sembrate, se non la cosa migliore che potesse succederci, la più necessaria. 

Mi facevano simpatia e me la fanno ancora, credo si siano perse perché la pandemia ha impedito gli incontri e ha bandito le piazze, che erano al centro della loro attenzione, erano una delle cose di cui avevano voluto riappropriarsi. Poi, senz’altro, non sono state capaci di articolare una proposta complessa. Ma sono fiducioso, aspetto. In Brasile si dice: aspetta seduto perché in piedi ti stanchi. 

Non sarà pigro?

Pensi che una volta, da piccolo, volevo imparare a suonare. Mia madre me lo sconsigliò fortemente, mi disse ma no, ché il giorno dopo ti stufi.

Lei non è mai stato un militante. La militanza (degli altri) le manca?

Credo fosse importante. Il PCI aveva dentro di tutto e se non avesse offerto una formazione a tanta gente chissà cosa sarebbe successo nel nostro paese. Era una scuola e le scuole sono importanti.

 

I ragazzi la entusiasmano? 

Entusiasmo è un parolone. Li guardo con molta simpatia e qualche speranza. Sono contento che siano tornati a muoversi, a farsi sentire. Greta Thunberg e le sardine sono per me un sollievo in questo senso. 

  

Destra e sinistra esistono ancora? Ci crede?

Io sì, ma non è tanto questione di nomi. I valori non mancano, ma sono incarnati o difesi molto poco e molto male.  

Da chi si sente rappresentato?

Da chi cerca di ragionare. Mi piacciono Prodi e Letta, anche se non hanno ruoli importanti nella sinistra attuale.

Ha disegnato per Linus, Il Corriere dei Piccoli, L'Espresso, Panorama, La Repubblica. Lavorerebbe mai per un giornale con idee diverse dalle sue?

No, farei troppa fatica. Lasciai Panorama quando passò in mano a Berlusconi sebbene mi avessero assicurato carta bianca. Fare ciò che vuoi in un posto che non ti piace che senso ha?

  

Cosa pensa della fatica che ci costa avere a che fare con chi la pensa diversamente da noi?

Che non è una novità.

  

Le statue le togliamo o le teniamo?

Le statue fanno la stessa cosa che fanno i loro accusatori: tirano fuori dal suo tempo un personaggio, ne eliminano la complessità, lo magnificano e basta. Non c’è niente di razionale né nell’innalzarle, né nel volerle distruggere. Se non le avessero mai fatte sarebbe stato meglio, ma adesso che ci sono non le tirerei giù: son pezzi di bronzo. Fine.

  

Sa che su Twitter c’è l’archivio Altan?

Lo cura mia figlia, io non sono un gran navigatore. So che abbiamo oltre 5mila fan. 

  

Sono tanti.

Sì, ma non troppi. Faccio numeri modesti e ne sono contento. Non vorrei mai essere una star.

  

Non c’è giorno che io apra Twitter e non trovi una sua vecchia vignetta pubblicata da qualcuno per dire qualcosa sul presente. Ogni suo lavoro s'attaglia perfettamente all’attuale.

Questo la dice lunga sull’attuale.

  

Anche sul suo talento. Il talento rende liberi?

Non so, io sono stato fortunato. Ho cominciato a fare questo mestiere per caso, ai giornali chiesi subito se avrei potuto disegnare quello che volevo, e non su commissione: mi dissero di sì. Diversamente non credo che ce l’avrei fatta. So di miei colleghi che devono aspettare le sei della sera per sapere cosa disegnare. A me non capita, sono libero dal “tema del giorno”. 

 

I politici non li ha disegnati quasi mai, tranne quelli “molto ingombranti”. Berlusconi, Craxi, Andreotti. E Salvini, anche.

C'è stato un momento in cui non riuscivo a farne a meno, arrivavo anche a fare dieci Salvini al giorno. Ora no, è diventato meno ingombrante di quello che crede. 

  

Le capita mai di ricredersi su una vecchia vignetta?

Sì, specie di quelle più vecchie, quando di politica capivo poco ed ero piuttosto aggressivo.

Una volta feci delle vignette contro Napolitano quando non era ancora nessuno, né segretario né presidente, perché stava alla destra del PC. Col tempo, ho capito di aver ecceduto, di essere stato cieco, massimalista. 

 
Ha avuto grandi maestri?

No, ma un paio di professori del liceo li ricordo ancora.

Poi ci sono state le lezioni che ho appreso dai grandi libri. Credo però che il più delle volte si impari senza rendersene conto. Io se non avessi letto la letteratura inglese dal Settecento in poi, non avrei capito che si può lavorare per sottrazione, sempre, e che le buone storie rifuggono dalla verbosità. La mia letteratura preferita è quella perché non ha morale. Leggi Tom Jones e capisci che gli inglesi sono diventati liberi prima degli altri.

  

Siamo ancora un popolo di anarchici molto disciplinati, come ha scritto tempo fa?

Ho visto gente comportarsi molto bene in quarantena, e mi ha stupito. Ho avuto la sensazione che tutti si attenessero a una disciplina sentita con naturalezza e rispettassero le regole per amore degli altri. Insieme a questo, m’è parso anche di notare l'elemento di gioco, l'espediente teatrale: credevamo che sarebbe durata poco, quindi entravamo nel ruolo, giocavamo a fare i responsabili. 

 

Le piacciono le regole?

Sì, a patto che siano sensate e comprensibili. In Italia ne abbiamo di così complicate che la sola cosa che si può fare è infrangerle.

 
Forse c’è del dolo, le facciamo tanto difficili così da avere la scusa buona per trasgredirle.

Ho questo sospetto, sì.

Di più su questi argomenti: