Il poeta cileno Pablo Neruda in Ungheria negli anni Cinquanta (LaPresse/Publifoto)

Il golpe che uccise la libertà in Cile e la morte poco accidentale di un poeta

Nadia Terranova

“Delitto Neruda” di Roberto Ippolito. Una ricostruzione dei fatti

“Cerchi pure, capitano! Qui c’è una sola cosa pericolosa per voi. – Cosa? – La poesia!” è questo il cuore di Delitto Neruda (Chiarelettere), l’inquietante ricostruzione che Roberto Ippolito fa della morte del premio Nobel, dodici giorni dopo l’11 settembre 1973, data del golpe di Pinochet. Sono le parole che il poeta rivolge a un ufficiale durante la perquisizione della sua casa di Isla Negra, tre giorni dopo il colpo di stato di Pinochet, quando le case sono saccheggiate e devastate, i libri, tutti i libri, incendiati per strada in roghi che dimostrano platealmente quale sia la considerazione del regime per la cultura (anche se, certo, Pinochet ha nella sua biblioteca copie autografate delle opere del poeta nazionale).

   

Neanche due settimane dopo il golpe, Pablo Neruda, in partenza per il Messico, muore nella clinica Santa Maria di Santiago, la stessa dove anni dopo sarà avvelenato l’ex presidente Frei Montalva. “Come ricordato dalla relazione del Programa de derechos humanos, la mancata partenza per il Messico, a causa del decesso, impedisce la possibilità che Neruda capeggi il governo in esilio, denunciando al mondo la soppressione della libertà e le violazioni dei diritti umani”, scrive Ippolito, e continua: “Neruda quando muore è la personalità più rilevante cilena, con un riconoscimento mondiale senza precedenti, e parallelamente sviluppa un’intensa attività politica: senatore, precandidato alla presidenza della Repubblica, ambasciatore e al momento del colpo di stato membro del comitato centrale del Partito comunista”.

   

L’inchiesta che ha curato, però, comincia molto prima. E’ negli anni fra il 1934 e il 1936, quelli dell’amicizia fra Pablo e García Lorca, che ha origine questo viaggio sorprendente e doloroso. La perdita dell’amico sarà l’inizio di una nuova presa di coscienza. Parte da lì, Ippolito, e poi viaggia attraverso documenti occultati e tesi sempre sostenute dalla famiglia: ufficialmente, Neruda è morto per un cancro alla prostata, ma la cartella clinica è scomparsa. “Questi i fatti: la morte improvvisa nonostante le buone condizioni e l’intensa attività di scrittura, il certificado de defunción falso e firmato dal medico senza vedere il corpo, le differenti calligrafie dell’attestazione, la fine con il cancro e non come dichiarato per il cancro, l’impossibile cachessia cancerosa come causa di morte ufficiale, la denutrizione smentita dal fotografo audace e dalla cintura del cadavere, la scomparsa della cartella clinica e di qualunque documento sanitario (…), la misteriosa ma ben conosciuta infezione sulla pancia, la presenza di un medico fantasma, l’arresto dell’autista colpevole di essere autista…”, così scrive Ippolito ripercorrendo tutto il libro, tutte le prove raccolte.

  

I capitoli di Delitto Neruda, definito da Giancarlo De Cataldo “stringente e appassionante”, hanno tutti un nome poetico, cominciano con “Quando…”: quando i libri vengono bruciati, quando un autista è detenuto per motivi politici, quando le foto smentiscono il certificato. Soprattutto, però, c’è il finale, “Quando la speranza continua a vivere di fronte alle onde dell’oceano ogni giorno”, è lì che Ippolito infine si ferma, dopo aver attraversato tutte le strade più nascoste e dopo aver raccolto tutti gli indizi che poteva raccogliere. Di fronte a quel mare, nella casa di Isla Negra, non ci sono solo i resti terreni di Neruda, ma anche la speranza frustrata di una giustizia possibile.