“Hazzard” e il dramma di una catarsi riscritta sul paradigma vittimista

Andrea Minuz

L'idea malsana che i contenuti trasmessi debbano essere "giusti"

Quando nei primi anni Ottanta guardavamo “Hazzard” eravamo più che altro turbati dagli splendidi shorts di Daisy, non sospettando che la minaccia alla nostra integrità morale sarebbe un giorno venuta dalla Dodge Charger arancione, con sfolgorante bandiera sudista sul tetto. Dopo “Via col vento” ritirato da Hbo, Amazon si allinea e potrebbe eliminare dal suo catalogo anche il telefilm coi cugini Duke. Addio piroette del “Generale Lee”! E’ stato bello scorrazzare su e giù per una contea che da bambino pensavo esistesse davvero, come una specie di Molise americano. In pieno #blacklivesmatter, “Hazzard” fa forse l’effetto di una nostra fiction con due simpatici ragazzoni di CasaPound e una vecchia Fiat Campagnola diesel, ribattezzata “Salò”, con fascio littorio sul cofano e clacson a trombetta che suona le prime note di “Faccetta nera” (nel telefilm c’era l’inno degli Stati Confederati).

 

Nonostante le apparenze, tutto questo in realtà c’entra poco con la morte di George Floyd. Sono anni che “Hazzard” è a rischio (nel 2015 la Warner sospese la produzione di gadget e giocattoli del “Generale Lee”). Sono anni che “Via col vento” e altri celebri film della storia del cinema americano vengono stigmatizzati per i loro “pregiudizi etnici e razziali”. I casi ormai non si contano. Ma quando tolgono anche il fucile a Taddeo, il cacciatore di “Bugs Bunny”, il gioco si fa duro (in futuro coltiverà un orto molto “green” con Michelle Obama e carote a km zero per attirare Bugs Bunny). La follia iconoclasta di questi giorni è il segno che la cosa sta sfuggendo di mano un po’ a tutti, ma il caso Floyd ha solo dato una spinta in più a un processo che viene da lontano, e che non si spiega solo con gli hashtag, il razzismo, le proteste. La notizia della censura di “Via col vento” è fortemente esagerata, dicono in molti, perché il film verrà rimesso nella library Hbo ma preceduto da un cartello con “spiegone” storico che contestualizza la vicenda.

 

Questa cosa, se possibile, fa ancora più paura. Almeno con la censura ci restava il brivido del film proibito, da vedere tutti insieme nelle catacombe. Vorremo molto conoscerli e parlarci e anche discuterci con questi spettatori che guarderanno “Via col vento” per farsi un’idea sulla guerra civile americana, gli schiavi, la questione razziale, come consultando le fonti per una “tesina di storia”. Magari poi si va tutti alla Scala a vedere il “Nabucco” per studiare i babilonesi o capire che tipo fosse questo Nabucodonosor. Eccoci quindi al cuore del problema. Che non è (solo) il politicamente corretto, non sono (solo) le rivendicazioni civili degli afroamericani, ma l’idea che film, libri, canzoni, oggetti artistici vari debbano ormai avere un rapporto “didascalico” e trasparente col mondo e i contenuti che mettono in scena. E i contenuti, va da sé, devono essere giusti. Il grigio non è più ammesso. Guccini “deve” essere comunista, sennò ci rovina le canzoni. “Via col vento” deve essere antirazzista sennò mi sento in colpa a stare in ansia per Ashley mentre Rossella scorre l’elenco dei caduti e dei feriti in guerra. E’ il dramma del “socialmente utile”, dell’invadenza del “giusto”, di una catarsi riscritta e modellata sul paradigma vittimista. Una specie di “sindrome Report” che travolge anche i film, valutati ormai solo per come ricostruiscono, prendono posizione, spiegano, denunciano, smascherano, o si prestano a diventare la prosecuzione dei temi del liceo con altri mezzi (capita anche se sei Quentin Tarantino e fai un film “à la Tarantino” sulla vicenda Sharon Tate).

 

Questo è il vero nuovo Uomo Qualunque, nero o caucasico non importa, preso nel furore conformista della “lezione morale”, un uomo costruito coi pezzi di tutte le rivendicazioni civili degli anni Sessanta, che ha la missione di trasformare ogni testo in un impossibile, borgesiano “manuale Cencelli” della storia. Dove non si possono buttare giù le statue, si rimuovono le immagini, ma qui non c’è nulla di “antisistema”, non c’è sconsacrazione irriverente. L’unica lezione che c’è da imparare in “Via col vento”, e che ogni generazione tramanda o tramandava a quella successiva, riguarda la nostra educazione sentimentale, non il fatto che Atlanta bruci o che Mami sia un cliché razzista (qui peraltro c’è anche il colpo di genio di ritirare dal catalogo, tra tanti “film razzisti”, quella con la prima donna afroamericana della storia che prese un Oscar). L’unico cartello utile per il film dovrebbe ammonirti di seguirlo con attenzione per capire se nella vita ti conviene correre appresso agli Ashley o farti sedurre dai Retth, se è meglio essere Melania o Rossella, o almeno quando conviene sembrare Melania e quando Rossella, e che una qualche “Tara” prima o poi ci vuole sempre.

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