Un Frame di Ombre selvagge, film del 1939

Due Americhe, due film

Maurizio Crippa

Il nostalgico (ma non schiavista) Via col vento e il rooseveltiano Ombre rosse uscirono nel 1939. Oggi e allora

"Mi chiamo John Ford, faccio western”. La più grande scena madre della sua carriera, starring se stesso, la girò una sera al Beverly Hills Hotel. Era il 22 ottobre 1950 e quel trombone maccartista di Cecil B. DeMille aveva convocato l’Associazione dei registi di Hollywood al completo per decidere l’espulsione di Joe Mankiewicz, sospettato di essere “un rosso”. Sigaro, leggendaria benda sull’occhio e scarpe da tennis, Ford se ne stette in fondo ad ascoltare quattro ore di processo sommario. Poi prese la parola, disse in modo stringato (era un asso del montaggio) che l’America era un posto libero e che nessuno doveva essere cacciato. Poi chiuse con un magistrale “e adesso andiamocene a dormire, domani abbiamo tutti un film da girare”. Mankiewicz non fu espulso e tutti se ne tornarono a casa.

 

Il primo capolavoro western della sua carriera (ci teneva infinitamente a essere considerato un artigiano del western, sapendo di essere molto di più) lo aveva girato undici anni prima, nel 1939. Ed era già un film politico, un inno rooseveltiano alla società aperta e tollerante. La Land of oppurtunity per tutti. Il film si intitolava Stagecoach, la diligenza, anche se malauguratamente da noi diventò Ombre rosse. Ma i pellerossa (ops, i nativi) sono in effetti solo ombre, comparse. Il film è invece il romanzo sociale di tante Americhe diverse costrette dal destino a condividere la stessa carrozza, lo stesso viaggio. C’è il brav’uomo e c’è l’altezzoso gentiluomo sudista, la dama che teme di contaminarsi alla sola vicinanza della prostituta cacciata dal paese, il banchiere ladro e il pistolero buono in cerca di riscatto. Difficile convivere, ma non c’è altra strada che quella di concedersi l’un l’altro una seconda possibilità. Benvenuti nella Frontiera, il sogno americano. Il dettaglio illuminante, che è poi lo spunto per parlarne oggi, è che Stagecoach uscì nello stesso anno di Via col vento, il gran melodrammone di Victor Fleming, il romanzo del Sud sospeso tra Destino e Nostalgia che in questi giorni fa molto discutere, e per pessimi motivi. Fleming non era certo un conservatore schiavista, lo stesso anno aveva girato anche quella magnifica favola ottimista, oggi direbbero inclusiva, che è Il Mago di Oz. (Due blockbuster in un solo anno, chapeau). Semplicemente, aveva fatto un film interpretando da par suo il sentimento e i colori di un’altra America, quella degli stati del Sud, delle piantagioni e dell’onore. Un’America che nella memoria, ma purtroppo allora ancora nella realtà, era popolata di schiavi neri e simpatici che facevano la loro bella figura, quasi elementi di un paesaggio romantico, tra le ville di Atlanta e le piantagioni. Un’America, per molti, da Eden, nostalgica e conservatrice – intimamente razzista, diciamolo pure – così diversa dal mito della Frontiera.

 

Due anime, due storie o persino due antropologie diverse. Con i loro scenari mitologici: la Frontiera, il luogo rude e puro in cui ogni cittadino americano può ricercare la sua felicità. O il Sud di una società ancora modellata e chiusa nei ruoli dell’ancien régime europeo: la terra e la fortuna ereditata, le classi sociali, il distanziamento (diciamo così) razziale. Entrambi i film ebbero fortuna, e oggi l’aura del mito circonda di più Rossella O’Hara. Ma forse è al sogno rooseveltiano di Ford che conviene guardare per trovare una via alle spaccature di oggi. Sono passati 79 anni da quella straordinaria stagione hollywoodiana. Ma è sufficiente mettere a fianco i due capolavori dell’anno per accorgersi di quanto le anime dell’America fossero, o siano sempre state, diverse. Non tanto o non solo in rapporto alla questione razziale e dello schiavismo – non ci sono parole per commentare la stupidità ideologica di pensare, oggi, di cancellare Via col vento per un’accusa razzista – quanto nella visione della società. Una nostalgica, guardiana delle tradizioni, e una aperta e utopistica la sua parte. La stessa America, la stessa Hollywood, che un decennio e una guerra mondiale dopo quei due film sapeva ritrovarsi in un hotel di Los Angeles a discutere senza sconti delle “attività antiamericane” dei suoi artisti. E sapeva uscirne però senza rovesciare statue e bruciare uomini o anche solo pellicole. Sapeva uscirne alla grande con la misura dell’ironia, “adesso andiamocene tutti a dormire”. Domani è un altro giorno.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"