Stampa (1902 circa) di Albert Robida che mostra una visione futuristica del viaggio aereo su Parigi nel 2000, mentre la gente lascia l'Opera

Parola di collassologa

Mariarosa Mancuso

La ripartenza post epidemia vista da Agnès Sinaï è un incubo apocalittico all’insegna della decrescita

Avevamo un amico che di tanto in tanto – ognuno si diverte a modo suo – testava la nostra capacità di sopravvivere in un mondo post atomico. Voleva sapere dove e come avremmo trovato un riparo, ci saremmo procurati l’acqua e l’avremmo fatta bollire sfregando i legnetti (e in quale contenitore: vaso di coccio? Lattina arrugginita trovata tra i rifiuti?). L’esame finiva subito, con l’accorata preghiera che l’atomica scoppiasse vicina a noi, disintegrandoci. Sopravvivere in un mondo somigliante a “La strada” di Cormac McCarthy – sporchi, laceri, al freddo, niente cinema, niente ristoranti e niente librerie – era pochissimo allettante.

 

Non sapevamo niente allora. Gattini ciechi della decrescita. Ma avevamo conosciuto il nostro primo collassologo, sia pure dilettante. Una collassologa professionista – Agnès Sinaï, insegna Politiche della decrescita a Sciences Po – era il 29 maggio su Libération. Ha fatto su di noi lo stesso effetto che a un italiano timorato di Dio, in piena Guerra fredda, avrebbe fatto la minaccia “i cosacchi arriveranno con i loro cavalli, a bere l’acqua delle fontane di San Pietro”. Terrore puro.

 

“Le Grand Paris après l’effondrement” è il titolo del libro che uscirà a settembre (scritto con Yves Cochet e Benoît Thévard, Wildproject editore). Dà per scontato che la regione parigina come la conosciamo non esista più. La ripartenza dovrà avvenire secondo superiori criteri di sobrietà. Sostiene Agnès Sinaï che la pandemia e il confinamento ci hanno insegnato cosa è necessario e cosa no. E già qui siamo pronti a scatenare la rissa: Netflix e le altre diavolerie streaming che ci hanno tenuti allegri e mentalmente impegnati, mentre attorno a noi erano tutti virologi, sono più che necessari. Ma la collassologa di sicuro ce li negherà.

 

Immagina infatti una Parigi del 2050 molto più arretrata della capitale che Jules Verne aveva raccontato nel suo fantascientifico romanzo “Parigi nel XX secolo” (scritto a metà dell’800, immagina gli anni 60 del Novecento in preda al “dèmone della prosperità”, fra tutti i dèmoni non il più malvagio). A metà del XXI secolo, ci sarà un contro-esodo dei parigini verso i borghi rurali – una fissa, questa dei borghi, speriamo se ne vada assieme al virus. A coltivare i 600 mila ettari di superficie agricola che si possono recuperare nella regione, per diventare autosufficienti (scordatevi l’ananas, per dire).

 

Pare sia terra buona per i cereali – finirà che spariranno anche tutte le intolleranze al glutine. Dovremo zappare, mungere le mucche, ricuperare gli antichi saperi (che porteranno con sé gli antichi sapori, e si suppone anche le antiche piante infestanti, l’antica frutta bitorzoluta, e l’antico pollo solo per i ricchi). Tutti. Nessuno escluso. Gli esempi però riguardano gli architetti (pare un film italiano): a loro tocca trasformare gli ipermercati in serre. Si oppone timidamente l’intervistatore: “Ma le città hanno tenuto, c’erano cibo ed energia”. La collassologa contrattacca: “Questo virus era una pappamolla, vedrete quando ne arriverà uno serio”.

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