Christo era un noi

Luca Fiore

E' morto a 84 anni l'artista bulgaro. Il sodalizio di vita e arte con Jean-Claude de Denat de Guillebon e la loro arte grandiosa che ci aiutava a comprendere la bellezza del mondo

Il 13 giugno, tra due settimane, Christo avrebbe compiuto 85 anni. Lo stesso giorno era nata anche Jean-Claude de Denat de Guillebon, con la quale per mezzo secolo, fino al 2009, ha condiviso una delle avventure artistiche più straordinarie e affascinanti della storia dell’arte recente. Negli ultimi anni, Christo Vladimirov Javacheff aveva continuato a parlare alla prima persona plurale: “Per noi...”, “Noi vogliamo...”, “Abbiamo pensato...”, per ribadire che ciò che andava realizzando era il frutto di un lavoro comune. “Litigavo con Jean-Claude di continuo. Ferocemente. Mi mancano quelle risse”, ricordava all’indomani della scomparsa della moglie. E non c’è da stupirsi che potessero avere visioni differenti: lui esule fuggito dalla Bulgaria comunista, lei figliastra del direttore dell’École Polytecnique, una delle scuole militari più prestigiose di Francia. Lei sposò un miglior partito, pur sapendo di essere incinta di Christo, ma il matrimonio non sopravvisse al viaggio di nozze. Abbracciò il mondo di lui e, per amore, diventò il secondo polmone di un unico organismo creativo: “Diceva sempre che se fossi stato un dentista lo sarebbe diventata anche lei”. La durata di questo sodalizio, considerata la felicità degli esiti che ci ha consegnato, è forse uno degli elementi più significativi della vicenda della coppia. Che l’espressione artistica possa essere anche il frutto della collaborazione di due persone e che la dialettica necessaria al lavoro possa non danneggiare il rapporto umano appare, oggi, quasi un’utopia.

  


Foto LaPresse


 

Ricostruire la storia di questo percorso non è semplice. Soprattutto per il fatto che i grandi progetti pubblici, che hanno reso celebre la coppia, hanno visto la luce parecchi anni dopo la loro ideazione. L’impacchettamento del Parlamento tedesco, realizzato nel 1995, era stato concepito già nel 1971. “The Gate”, che nel 2005 vide Central Park di New York riempirsi di 7.500 “bandiere” arancioni, fu rifiutato nell’amministrazione cittadina due volte: nel 1979 e nel 1981. Una delle indubitabili abilità della coppia è stata quella di convincere le autorità pubbliche a dar credito ai loro sogni. Certo, uno degli argomenti più convincenti era che gli enormi costi di produzione sarebbero stati a carico degli artisti (che riuscivano ad autofinanziarsi vendendo bozzetti e opere giovanili che nel frattempo avevano acquisito valore). Ma poche cose sono difficili come persuadere un politico, su cui pende la spada di Damocle del voto degli elettori, a dar retta a chi vuol trasformare un pezzo di paesaggio, un monumento o un edificio pubblico, in un’opera d’arte che non ha nessuna funzione se non quella di aprire uno squarcio poetico nella vita della gente comune. Ed è proprio un’idea di arte pubblica popolare e democratica l’altra eredità che Christo ci lascia. Nel 2016, con “The Floating Piers”, la passerella giallo-arancione che galleggiava sul Lago d’Iseo, furono oltre un milione di persone a godere di persona dell’opera. E non tutti erano frequentatori abituali di gallerie o di biennali d’arte.

 

Ma da che parte nasceva lo scarto poetico di questi progetti? Che cosa oggi ci impressiona delll’impacchettamento dei monumenti come il Vittorio Emanuele e il Leonardo da Vinci a Milano nel 1970, delle Mura Aureliane a Roma nel 1973 o del Pont Neuf di Parigi nel 1985? Che cosa ci toglie il fiato guardando le foto del 1969 in cui si vede il milione di metri quadrati di costa australiana avvolti da quel tessuto sintetico chiaro? L’intervento artistico, in tutti questi casi, sottraeva alla vista ciò che l’occhio era stata disabituato a vedere. Velando, svelava. E restituiva nel suo senso, o nella sua bellezza, ciò che l’abitudine ci aveva sottratto. Assomiglia, come procedimento, alle “Cancellature” di Emilio Isgrò. E, in questo senso, si capisce perché l’opera della coppia sia accostata al movimento del Nouveau Réalisme. Che è lo stesso movimento nel quale, con tutti i distinguo necessari, è stato inserito un folle navigatore dell’infinito come Yves Klein. Cioè: per essere davvero realisti non basta mostrare soltanto l’apparenza delle cose.

 

Eppure, con il tempo, il processo di nascondimento lascia il posto alla dinamica inversa. L’intervento di Christo e Jean-Claude sul paesaggio, naturale o urbano, interagendo con esso, va a esaltare la bellezza di ciò che c’è. Pensiamo agli isolotti della Baia di Miami, che nel 1983 diventano gigantesche ninfee rosa. O le migliaia di ombrelli gialli o azzurri che punteggiano il paesaggio giapponese o americano tra l’94 e il ‘91. E, infine, abbiamo rivisto con occhi nuovi Central Park e riscoperto la magia del Lago d’Iseo e di Montisola.

 

Christo ha chiesto che venisse portato a termine il progetto dell’impacchettamento dell’Arco di Trionfo a Parigi, previsto per quest’anno, ma slittato per la pandemia al 2021. In cantiere, poi, c’era il più monumentale dei progetti, “The Mastaba”, una pila di 400mila barili da realizzare nel deserto degli Emirati Arabi immaginata già nel 1979. Un monumento più grande della Basilica di San Pietro e della Piramide di Giza. Un sogno che probabilmente resterà tale, ma che ci dà la misura dell’ambizione di una pittura che fuoriesce dai confini dalla piccola tela un metro per un metro e si confronta con la dimensione sconfinata del paesaggio. E che che ci dice che, nonostante tutto, siamo fatti per cose grandi.

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