Paolo Giordano (foto LaPresse)

L'uomo è misura di tutte le cose, non il virus. Conversazione con Paolo Giordano

Simonetta Sciandivasci

Lo scrittore racconta com'è stato scrivere della pandemia, l'intersezione tra scienza e letteratura, l'assurdità della linea del rassicurare e punire, le cose che dovremo ripensare, la fine dell'assertività, la rabbia che ha provato

All’inizio, ci dicevamo che sarebbe stata una terrificante parentesi. Non ce ne rendevamo conto, ma era un modo di minimizzare, anche se meno vistoso di quello precedente, quando pensavamo che ci fosse in giro una brutta influenza. Facevamo un gran parlare di come sarebbe stato sfogliare l’album della quarantena, di come l’avremmo raccontata.

 

Tra quel momento e questo nel quale ci troviamo adesso, con il futuro sballato, la transitorietà di tutto, il timore che la nostra vita non potrà che diventare a forma di covid19, tra questi due punti di fuga, Paolo Giordano ha pubblicato un libro, “Nel contagio” (Einaudi), con lo sguardo fisso sul presente e anzi nel presente, per cercare di spiegare cosa stesse capitando.

 

Dice al Foglio: “Questa epidemia attraversa i vasi linfatici della nostra società, ci mostra più chiaramente un sistema di relazioni e poteri che non funzionano più. Una grande diagnostica di dove siamo”. Le sembra che la diagnosi sia stata fatta per bene o sia almeno in corso? “Ho notato piuttosto che si persevera nella rassicurazione”. Ed è male? “La si fa male. Rassicurare non significa dire che andrà tutto bene, che avremo il vaccino, che uniti vinceremo. Questa è una retorica che tradisce una scarsa fiducia nel fatto che le persone possano comprendere i problemi nella loro ampiezza e profondità. È compiacenza, e non porta da nessuna parte”.

 

Prima ancora del libro, Giordano ha scritto (e continua a farlo) del Covid sul Corriere della Sera, con lo stesso intento del libro: stare dentro al problema, guardarlo, spiegare cosa si vede. “La trasmissione del sapere capillare è una forma di profilassi diretta e lo abbiamo visto: più siamo consapevoli, più agiamo in maniera responsabile non perché siamo spaventati o perché qualcuno ci ha detto che andrà tutto bene, bensì perché abbiamo capito. La mia intenzione è stata questa, sin dall’inizio: provare a spiegare, compassatamente, quello che andavo capendo, giorno dopo giorno. Quando ho iniziato sul Corriere, all’inizio della quarantena, sono partito dalla matematica perché è ordinante e perché in quel momento eravamo tutti spaventati dai numeri, che non facevano che aumentare: crescevano i morti e i contagiati, sembrava che fossimo perduti. Invece, quello era il normale andamento di un’epidemia. Spiegare la ratio dietro quelle cifre rendeva quantomeno obiettivo il modo di guardarle”.

 

A marzo, una delle poche ironie che ci si concedeva, nella bolla di quelli che sanno e scrivono, era sull’esorbitante numero di instant book, memoir, romanzi, sceneggiature che ci avrebbero sommersi (e ci sommergeranno, estote parati), tutti sullo stesso tema: la mia quarantena. Questo di Giordano invece è il libro di uno scrittore che è anche uno scienziato, o almeno lo è stato. Lui lo chiama librino, odia dire instant book anche se ammette che la dicitura è corretta, e lo ha scritto per andare oltre gli articoli che per lui “sono un farmaco a rilascio immediato”, e provare così a ragionare “a due velocità di pensiero”.

 

Ha scritto che abbiamo chiuso troppo tardi per salvare la produzione e che stiamo riaprendo per salvare la produzione. Avremmo dovuto tenere ancora il paese fermo? “La questione non sta nella durata, ma nel metodo. Non si può dire ai cittadini che dipende tutto da loro e riaprire quando le infrastrutture necessarie alla sorveglianza epidemiologica non sono pronte, né è stato chiarito a quale livello di capillarità arriveranno i test. La soluzione pensata per un orizzonte temporale di due settimane al massimo era indigesta nelle prime settimane, adesso è insopportabile, perché quello che è successo era stato previsto, la comunità scientifica lo dava come un fatto certo e non un’evenienza, in forse era unicamente il quando. Il fatto che quasi tutti i governi si siano protetti dicendo che nessuno avrebbe potuto immaginare questa catastrofe è semplicemente la prova di come tutto il nostro sistema di pensiero dribbli sulle prospettive di lungo corso”.

 

Suvvia, un po’ di misericordia. “Ho sperato fino all’ultimo che allo sbigottimento iniziale seguisse una presa di coscienza diversa. In fondo, nella fase uno era più semplice, non si poteva che agire in un modo, dovevamo proteggerci e metterci al passo con quello che stava capitando. Con il passare del tempo, però, quel dirsi impreparati, dall’essere una scusa disonesta s’è trasformato in un condono delle responsabilità”.

 

Hanno ragione quelli che vedono nel virus una punizione della tracotanza umana? “Certo che no. La visione moraleggiante del virus è odiosa;  dotarlo di una propria moralità è assurdo”. Lei crede in Dio? “Sì, e non saprei risponderle che così, senza aggiungere altro”. L’uomo è o no misura di tutte le cose? “Eccome se lo è, per la semplice ragione che il poco che sappiamo è misura di quello che l’uomo può conoscere. All’uomo la scienza ha sempre accordato una centralità assoluta. È proprio perché l’essere umano è il calibro del mondo che ho mal tollerato l’intransigenza sugli errori, la stigmatizzazione delle effrazioni, che peraltro in situazioni come queste sono del tutto prevedibili e comprensibili. Il virus ha compiuto un livellamento violentissimo: tutti abbiamo dovuto comportarci allo stesso modo perché eravamo tutti suscettibili allo stesso modo. Il passo successivo di una società cosciente di sé avrebbe dovuto essere riconoscere che non tutte le case e le vite sono uguali, ciascuno vive la quarantena nel proprio modo, con i propri pesi. Invece, presi dalla smania dell’ubbidienza, abbiamo smesso di guardare i singoli esseri umani”.

 

Cosa pensa del caso Ferguson, l’epidemiologo dell’Imperial college che si è dimesso per aver violato il lockdown, incontrando la sua amante? “Dimettendosi ha agito da scienziato e non da politico: si era fatto promotore di una linea di comportamento che ha tradito ed è stato giusto riconoscerlo con un gesto di serietà e coerenza. Noi stiamo abituandoci all’idea che gli errori evidenti basta negarli un sufficiente numero di volte perché spariscano; siamo nemici della coerenza e quando qualcuno la infrange proviamo un grande sollievo, che è sempre un’auto assoluzione”.

 

Lei ha scritto che la scienza è rientrata nelle nostre vite, riacquisendo importanza, e che questo ha almeno un dato politico rilevante: la fine dell’assertività. “Abbiamo anche dovuto imparare che la scienza non è un serbatoio di certezze e che è il dubbio a muoverla”.

Come la letteratura. “Non riesco a pensare a un romanzo di risposte, che metta in campo un’idea di mondo formata: per me è sempre stato vero e possibile il contrario”.

Dev’essere per questo che è riuscito a fare sia il ricercatore in fisica che lo scrittore. “Ho sempre trovato bizzarro che mi venisse domandato come potessi conciliare le due cose e non m’è mai riuscito di rispondere con totale onestà perché in me non s’è compiuta la loro separazione”.

 

Mi dice un altro punto in cui lo scrittore incontra lo scienziato? “L’evasione. Tutti la riconosciamo come essenziale a chi inventa una storia, ma anche la scienza la presuppone e la cerca, perché spalancandoti scenari a cui non sei abituato, ti rapisce. Ho fatto fatica a leggere in queste settimane perché ero completamente assorbito dalla realtà, cosa che di solito sono molto poco. Però ho ripreso un libro che avevo amato molto, “Lincoln nel bardo” di George Saunders, dove parlano i morti e tutto è pervaso da una stramba luce”.

Le è stato di conforto? “Forse”.   

 

Per Jonathan Franzen il pianeta è spacciato. È d’accordo? “No. E questa è la risposta che le dà l’uomo di fede. Se indosso le lenti della scienza, però, ho fortissimi timori”.

Per questo motivo ha scritto che “la scienza è una interdizione al nostro godimento”? “Intendevo dire che la variabile che questa pandemia ha introdotto, e sulla quale prima ci consentivamo di non fare altro che retorica, è che le risorse non sono illimitate. Il nostro desiderio è sconfinato, il pianeta no”.

 

Le battaglie ambientaliste rischiano, paradossalmente, di venire azzerate? “All’inizio della pandemia mi sono reso conto che si era aperto uno spazio inedito, grande abbastanza per portare una concatenazione di pensieri sull’ambiente, qualcosa che rendesse possibile far capire che lì c’è la sola possibilità che abbiamo di occuparci della sicurezza sanitaria di tutti. Quello spazio, però, si è già ridotto, molti discorsi non sono stati neanche inaugurati e rischiamo un effetto di rinculo che potrebbe inibire tanto la creazione di una coscienza ambientale nei giovani, peraltro tutti confinati, sia le politiche di tutela del pianeta che si stava cominciando ad approntare”.

Avevamo anche detto che nessun momento più di questo sarebbe servito a liberarci di cialtroni, urlatori, incompetenti, facinorosi, odiatori. “E invece non è successo. Credo che uno dei motivi sia da rintracciare nel fatto che la comunicazione dell’emergenza, prima ancora della sua gestione, è stata disastrosa perché discontinua, lacunosa e frammentaria. Non lo dico per fare polemica, ma dovendo seguire attentamente quello che ci veniva detto dal governo, ho fatto una fatica straordinaria a mettere insieme tutti i pezzi, spesso invano. Ecco perché c’è stata quella proliferazione di regole e regolette: se l’informazione fosse stata più accompagnata, non ce ne sarebbe stato bisogno. Ora ci dicono che dipende da noi ma lo fanno per fretta e di fretta. E questo lo penso pur avendo bene in mente che esiste un piano di responsabilità personale importante, e che uno sforzo collettivo per fare in modo che la somma di comportamenti sia virtuosa, potrà fare la differenza”.

 

Sa che mi sembra arrabbiato? “Lo sono. Prima mi capitava ogni giorno di essere sul punto di piangere. Poi quell’emotività si è raffreddata, ma non mi sono disamorato delle persone, né della vita”. Cosa teme? “Che torni tutto come prima. Abbiamo il dovere di ripensare ai nostri modelli di vita e sviluppo”.

Si è mai ritrovato a fare pensieri che non condivideva durante questo isolamento? “No. Mi è capitata un’altra cosa, però. Ho imparato a lasciarmi andare. Mi sono reso conto che ci sono cose ben più importanti delle mie manie di controllo. Non sa che liberazione”.

Liberi tutti, signori. E state buoni, se potete.

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