Molinari e la sfida di sostituire la questione morale con la cultura atlantista

Giuseppe De Filippi

Storia, formazione e sfide del nuovo direttore di Repubblica

Un libro all’anno, in piena media Vespa, per Maurizio Molinari. Non sono gli annales da vetrinetta del grande giornalista televisivo ma saggi a caldo, all’americana. Per entrambi, però, vale la saggistica come prosecuzione dell’ossessione quotidiana per il giornalismo. Perché Molinari, da ieri nuovo direttore di Repubblica, dopo quattro anni alla direzione della Stampa, vive immerso nella storia, nella politica internazionale e nelle news, praticamente da quando ha cominciato a leggere. E la sua capacità ricettiva, come quando si dice dei bambini che sono delle spugne, cresce con gli anni. E gli fa inglobare tanta e tanta massa di fatti e opinioni (in lui sempre separati, s'intende) da far debordare la produzione giornalistica, come si diceva, in quella saggistica. E nei pareri da esperto prestati in Tv e nelle lunghe estati zanzarose delle presentazioni librarie. Il flusso di informazioni e di analisi che lo investe e che Molinari sa dominare ha a che fare prevalentemente con la politica internazionale, la storia contemporanea nel suo dispiegarsi, attraverso due lenti fondamentali: l’atlantismo e l’ebraismo. Sono le due chiavi di accesso alla realtà vivente, e sono stati, l’interesse per gli Stati Uniti e quello per Israele e per la cultura e la storia ebraiche, i due perni della sua formazione. Anche fisicamente, con studi in Israele, alla Sapienza di Roma (due lauree, storia e scienze politiche), in Uk, e poi con tanta esperienza giornalistica e buone frequentazioni di establishment nei tanti anni a New York.

  

Tra giornali e saggistica emergono le sue sistematiche passioni per la politica americana, ha raccontato l’epopea obamiana e l’America profonda, e per la questione mediorientale, di cui è stato cronista e testimone di ogni fermento e di ogni possibile sviluppo. Ha cominciato a guidare La Stampa, come direttore, dopo gli anni americani, nel 2015. Al suo arrivo le cronache si concentrano su questi tratti, di grande conoscitore di questioni internazionali, ma non segnalano nulla che possa essere ricondotto a influenze politiche, a rapporti di potere di tipo corrivo. Arriva a dirigere come un predestinato, e in cambio però non regala neanche una battuta sdrammatizzante, mezzo aneddoto, un quarto di squarcio di intimità divertente. Tanto che, sempre le cronache dell’epoca, si buttarono più sulla delusione di un allora vicedirettore rimasto tale che sulla soddisfazione del neo direttore. A Repubblica arriverà allo stesso modo. E se non è incline alla battuta pubblica si fa una certa fatica a vederlo in certi spazi autocelebrativi, stile Repubblica delle idee. Iniziative nate per darsi ragione da soli e per farsi vedere belli e pensanti.

  

Ma Molinari, da quel punto di vista, è come Obelix: non ha bisogno della pozione magica del convegnismo da Italia migliore semplicemente perché è già un esponente dell'Italia migliore fatto e vestito, e anzi è qualcosa di più, un esponente della cultura atlantica migliore. E allora dovrà forse prendere le misure di quel mondo un po’ sopra le righe (e un po’ troppo allevato a colpi di questioni morali) anche quando vuole atteggiarsi a sobrietà. E dovrà cercare di orientarsi in un giornale che nasce anche per fare politica, in Italia e non a Washington, e non può fare niente per reprimere quel destino da scorpione al guado. A La Stampa ultimamente sembrava più giocoso, in ambito giornalistico, con qualche intemerata e passeggiata fuori dalle interpretazioni canoniche. Perfetto e rigoroso nella difesa dei suoi quando la libertà di stampa è stata messa sotto scacco dall’ambasciatore russo a Roma. Adesso forse dovrà vedersela con altri poteri, non dotati di arma nucleare. Poteri più italiani, che non spaventano nessuno, ma almeno una battuta, mezzo aneddoto, un quarto di squarcio di intimità divertente, li esigono. E’ romano e romanista. Potrebbe anche bastare.

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