Addio al fotografo della savana e delle belle donne

Marina Valensise

È morto a 82 anni Peter Beard, il dandy amico di Warhol e Dalì, che ha vissuto la sua vita come se fosse un’opera d’arte

È morto nella natura Peter Beard, il fotografo della savana africana e delle belle donne, il dandy amico di Andy Warhol e Salvador Dalì, il kouros che fece innamorare di sé la cognata di John Kennedy, Lee Radzwill Bouvier, quando Jacqueline Onassis l’invitò un’estate a Skorpios per tenere compagnia ai figli bambini. È morto a 82 anni colpito da demenza senile. Dopo venti giorni di assenza, la polizia ha trovato il suo corpo in mezzo al verde del Campo Hero State Park, non lontano dalla sua casa di Montauk, il villaggio di pescatori sulle rive di Long Island. È quel che resta del corpo da dio greco di quell’uomo, “mezzo Tarzan e mezzo Byron”, che ha vissuto la sua vita come se fosse un’opera d’arte. Il suo spirito resta invece affidato a un’opera eclettica, composta di fotografie di animali selvaggi, imbrattate di inchiostro e sangue, suo o di animali da macello, e da diari costellati di fiori, foglie secche, insetti e ritagli di giornale, ossa e biglietti di treno, disegnini, piccole sculture, ma anche da calendari portentosi come il Pirelli 2009, e soprattutto molte amicizie stravaganti e ad alto tasso erotico, come quella leggendaria che lo legò a Lee Radziwill.

  

Sam Kashner e Nancy Schoenberg, i biografi delle favolose sorelle Bouvier (Harper Colins 2018, Mondadori 2019, vedi anche il Foglio, 10 dicembre 2018), raccontano infatti la fatale estate a Skorpios, quando Jackie per farsi perdonare dalla sorella di averle fregato l’amante Onassis, le offrì il fotografo come premio di consolazione. Grazie a lui, Lee, che all’epoca era ancora la principessa Radziwill, moglie dell’aristocratico polacco esule a Londra e immobiliarista, scoprì la lussuria, il gusto della scoperta, forse persino l’amore. Di notte scivolava nel suo letto, lasciando dormire marito e figli nelle stanze accanto. Di giorno, nuotava con lui per ore in mare aperto, nella natura sfavillante dell’estate mediterranea. Le cose si complicano quando marito e amante partono insieme per un safari in Kenya, ma dopo una vacanza alle Barbados, Lee decide di divorziare e resta a New York col suo toy boy. Per quanto dissonanti, lei chiccissima e ipermondana, lui trasandato, come se avesse dormito in macchina, e sempre un po’ fumato, i due per qualche tempo furono inseparabili. Con Truman Capote seguirono la tournée dei Rolling Stones in America nel 1972, finché le loro strade non si separarono. “Peter Beard ha cambiato la mia vita. Mi ha aperto tante di quelle finestre, trasmettendomi un’insaziabile curiosità”, dirà lei di quell’adone per il quale, per la prima volta nella vita, aveva rinunciato allo schema edipico del compagno maturo e solvibile.

 

Seppur nato ricco, il bisnonno era stato fra i fondatori della Great Northern Railway, un altro era stato un magnate del tabacco, Peter Beard, ribelle e anticonformista, era un dissoluto vero. Abbandonati gli studi in medicina (la malattia vera sono gli esseri umani), dopo la laurea in storia dell’arte a Yale, si era trasferito in Kenya come fotografo del Tsavo National Park. Da patito di Karen Blixen e di animali selvaggi, comprò 50 acri di terra a 20 miglia da Nairobi, si trasferì lì all’ Hog Farm, vicino alla tenuta della baronessa danese. Nel 1965 divenne famoso con “The End of the Game”, il primo libro sui grandi cacciatori e lo sterminio della fauna africana. Per quarant’anni si divise tra l’Africa e Manhattan, lavorando come fotografo free lance per Vogue e Elle (“la bellezza delle donne è l’ultima cosa rimasta in natura, per questo sono felice di fotografarla”), lanciandone incarnazioni meravigliose come Iman, e impalmandole in proprio come la seconda moglie Cheryl Tiegs e come la terza, Nejma Khanum, che adesso veglia con rapace oculatezza sul valore del suo patrimonio.

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