Abbiamo vinto, il nostro Io viene prima di tutto. Ma il prezzo da pagare è la solitudine

Sergio Belardinelli

La rovina del soggetto moderno e il malinteso senso di libertà

Ci sono parole che sono capaci di illuminare un’epoca. Ma bisogna individuarle, studiarle, dar loro voce, ascoltarne i suoni e le connessioni: questo è il difficile. Tanto è vero che il più delle volte esse passano inosservate, ne vediamo la superficie anziché lo spessore, le utilizziamo senza accorgerci della loro luce, nemmeno tanto nascosta. Se ci pensiamo bene, uno spreco indicibile. Finché qualcuno non ci scuote dalla nostra pigrizia, squadernandocene qualcuna davanti agli occhi. In questi casi la meraviglia si mescola a un profondo senso di gratitudine: esattamente quanto ho provato leggendo Solitudine, il libro di Mattia Ferraresi, pubblicato da Einaudi, in questi giorni nelle librerie.

  

Da decenni la sociologia e le scienze umane richiamano l’attenzione sul progressivo disgregarsi dei legami sociali, sull’isolamento crescente degli uomini del nostro tempo e sul bisogno di comunità che ci contraddistingue. In Gran Bretagna hanno istituito addirittura un ministero per la solitudine, tanto il problema è diventato drammatico. Di solitudine ormai si muore e, peggio ancora, si uccide. Ovvio che il tema sia andato ben oltre l’orizzonte d’interesse dei filosofi, dei letterati e dei sociologi e riguardi sempre di più quello dei medici e di coloro che hanno il compito di fronteggiare le molteplici patologie sociali. Nel caso della solitudine, e Ferraresi ce lo mostra in modo direi quasi compiuto, siamo di fronte, non da oggi, a una vera e propria epidemia. Si pensi ai cosiddetti Hikikomori giapponesi (persone, per lo più giovani, che decidono di chiudersi nel perimetro della propria stanza, rinunciando a qualsiasi relazione con l’esterno che non sia tramite web), al numero impressionante di giovani che non studiano non lavorano, né sono inseriti in percorsi di formazione, i cosiddetti Neet (pare che in Italia siano circa due milioni), ai giovani perennemente incollati al cellulare o agli anziani che muoiono senza che nessuno se ne accorga; ma si pensi anche ai molti suicidi e omicidi “senza perché” che riempiono quotidianamente le nostre cronache. Suicidi e omicidi “anomici” li avrebbe definiti Durkheim. Ovunque un devastante senso di solitudine che, come dice assai bene Mattia Ferraresi all’inizio del suo libro, “è qualcosa di più complicato e oscuro di una propensione sociale: è lo stato esistenziale dell’uomo contemporaneo”.

 

Ma come è potuto succedere? A che cosa è dovuto questo essiccamento progressivo delle relazioni umane?

 

La risposta di Ferraresi, diretta e assai poco diplomatica, vista l’aria che tira, è la seguente: “La solitudine di cui la nostra epoca si duole è l’esito di un’idea precisa, quella dell’individualismo, inteso anzitutto come autodeterminazione e autocompimento della persona. Questa scelta ideologica è uno dei cardini della modernità. Nel divincolarsi dalle autorità, dalle gerarchie e dalle costrizioni tradizionali che lo opprimevano, l’uomo moderno si è ritrovato solo. Ha abbracciato un’antropologia solitaria e su quella ha immaginato di dare vita a un mondo nuovo, salvo scoprirsi poi amareggiato e deluso. Ha perseguito un ideale di liberazione che oggi si presenta come una prigionia”. E’ questa la grande eterogenesi dei fini della modernità occidentale, i cui frutti vediamo oggi un po’ ovunque e che Ferraresi approfondisce con rara competenza e sensibilità. I suoi lunghi soggiorni negli Stati Uniti evidentemente gli hanno affinato lo sguardo. E’ là, infatti, che la solitudine mostra, forse più che altrove, le sue molteplici sembianze, nonché i suoi spesso inutili rimedi, ma anche le sue analisi più profonde. Belle e malinconiche le pagine che Ferraresi dedica al successo dei robot come veri e propri equivalenti funzionali di persone in carne e ossa che non si trovano più per farci compagnia: un vano palliativo alla solitudine, dietro al quale sta, non tanto l’umanizzazione dei robot, quanto l’accettazione di una sorta di robotizzazione dell’umano, ridotto a semplice fascio di funzioni o di ruoli. Importanti, tanto per fare qualche nome, i riferimenti a La folla solitaria di Riemann, a La cultura del narcisismo di Lasch, a Fuga dalla libertà di Erich From e agli scritti di Robert Nisbet sulla crisi dell’autorità e della comunità: certamente, ancora oggi, riferimenti decisivi per comprendere il senso della crisi e della solitudine delle nostre società occidentali. Crisi della famiglia, crisi della scuola, crisi dei legami sociali, crisi demografica, spaesamento generalizzato, ripiegamento su un eterno presente e sfiducia nel futuro sono tante manifestazioni di una stessa malattia: il ripiegamento su se stesso dell’individuo moderno fino a rendere difficile il riconoscimento dell’altro e il senso stesso della propria libertà.

 

Per essere veramente liberi non basta che si possa fare ciò che ci piace; bisogna anche sapere perché vogliamo fare una determinata cosa. Per questo la libertà va “coltivata”, ha bisogno di cultura, diciamo pure, ha bisogno di essere collegata a un’idea di vita buona alla quale aspiriamo e intendiamo conformarci. E’ questo che dà senso alla libertà. Una libertà di fare ciò che ci piace che perde di vista il perché vogliamo farlo è destinata a sfociare nell’indifferenza e nel non senso. Possiamo andare dappertutto, ma non sappiamo più dove andare per avere, non dico la felicità, ma almeno una vita decente. E’ questa, e Ferraresi lo fa vedere molto bene, la vera rovina del soggetto moderno. Volevamo essere liberi da qualsiasi legame sociale, liberi di affermare semplicemente la nostra volontà? Siamo stati accontentati: il nostro self, almeno a parole, viene prima di tutto il resto. Ma il prezzo che dobbiamo pagare è precisamente la solitudine in una società che funziona come se noi non ci fossimo. Proprio come i costruttori di Babele, ai quali Ferraresi dedica pagine molto belle, è come se, per uno spasmodico desiderio di autoaffermazione (di “darci un nome”, dice il testo biblico), avessimo sacrificato noi stessi alla vana costruzione di una torre.

 

A questo punto la domanda fatidica: che fare? Ferraresi non offre ricette in proposito, ma nell’ultimo capitolo del libro indica una strada. Se la radice ultima della nostra solitudine “è la mancanza di un’ipotesi credibile intorno al senso dell’esistenza”, questo almeno ci dicono i “veggenti” della solitudine, da Tom Wolfe a Michel Houellebeq, è precisamente su questa mancanza che bisogna lavorare, con la fiducia che, come diceva Hölderlin, “dove crescono i pericoli, là cresce anche la speranza di salvezza”. Di certo non possiamo tornare al passato, ai bei tempi della comunità e della religione capace di legare tutto, che poi belli non erano affatto. Dovremmo invece prendere sul serio il bisogno dell’altro, di un Tu che dia senso alle nostre relazioni, come pure il fatto che ancora oggi l’esperienza religiosa continua a rappresentare “l’opposto della solitudine”, per conseguire, non saprei come dirlo, una modernità più riflessiva, più consapevole del fallimento delle sue declinazioni individualiste. Forse, dopo aver parlato tanto dell’uomo, visti i risultati, è tempo che si torni a parlare anche di Dio. Il resto potrebbe esserci dato in sovrappiù.

 

Chiudo con una nota autobiografica, che a Ferraresi certamente non dispiacerà. Una quindicina d’anni fa, mi capitò di chiedere al cardinale Joseph Zen, allora vescovo di Hong Kong, di indicarmi quale fosse secondo lui il principale problema del momento storico che stavamo attraversando. Ricordo che improvvisamente il cardinale si fece serio, poi, col suo italiano perfetto, mi diede una risposta indimenticabile, che forse sintetizza bene anche il non detto, la speranza, di Solitudine: “Ovunque registriamo una preoccupante incapacità di dare senso alle nostre povere vite, privi come siamo di valori forti in grado di sostenerci. Torniamo a Dio attraverso i poveri, accogliamoli come un’occasione di conversione: questa mi sembra la strada che ci viene suggerita dal tempo presente. Se sapremo avvicinarci, se sapremo avvicinare i giovani alla sofferenza dei nostri simili, possiamo star certi che nulla sarà più come prima nella nostra vita; ci sentiremo tutti più forti e meno soli”.

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