Foto LaPresse

Caro Scurati, senza meccanismi di valutazione nelle università tornano i baroni

Fabio Sabatini

Risposta allo scrittore: “Non c'è nessun mutamento catastrofico”

“Questo è uno di quegli articoli che di solito non legge nessuno”. Comincia così l’editoriale di Antonio Scurati sulla presunta crisi dell’università italiana pubblicato il 16 febbraio dal Corriere della Sera. Se tuttavia qualcuno ha letto l’articolo, potrebbe credere che l’università sia vittima di un “mutamento catastrofico” che ne sta provocando la “morte lenta” (parole dell’autore). Scurati, stimato scrittore e professore di critica letteraria, attribuisce la responsabilità di tale omicidio-suicidio al “mito soffocante e ossessivo della valutazione”, in cui vede il sintomo di un asservimento al mercato potenzialmente letale per lo sviluppo della conoscenza nel nostro paese.

 

L’articolo dipinge la valutazione come un’inondazione di adempimenti formali che ammorbano la vita degli studiosi, sia per soddisfare le perversioni di un “elefantiaco apparato burocratico”, sia per favorire, in modi non meglio definiti, le baronie. Una critica legittima, ancorché piuttosto vaga, per comprendere la quale è necessaria qualche parola sull’oggetto della valutazione e lo spirito delle riforme che l’hanno introdotta.

 

La valutazione richiede agli accademici di dare conto del proprio operato. A tal fine, definisce alcuni criteri che misurano i risultati conseguiti dai docenti e dalle rispettive istituzioni. Per esempio, per ottenere l’abilitazione a professore associato e ordinario è necessario pubblicare le proprie ricerche su riviste scientifiche internazionali di buon livello. Nelle discipline più internazionalizzate, è difficile che un ricercatore incapace o non interessato a contribuire al dibattito scientifico ottenga l’abilitazione.

 

Senza l’abilitazione non si può partecipare ai concorsi da professore universitario: ciò migliora la qualità media dei candidati tagliando fuori i meno meritevoli. Inoltre, grazie alla valutazione una parte del finanziamento degli atenei e dei dipartimenti dipende oggi dai risultati (per una quota del 20 per cento). Ciò significa che, se nei concorsi locali viene assunto un brocco o un ricercatore poco propenso a svolgere il suo dovere di ricerca, il dipartimento che lo ha assunto potrebbe essere (leggermente) penalizzato. I dipartimenti che conseguono risultati migliori, invece, potrebbero essere premiati.

 

Si tratta di un tentativo di migliorare la trasparenza e l’accountability (se mi è consentito usare la lingua che qualche tempo fa, sempre sulle pagine del Corriere, un illustre cattedratico ha definito “vaselina dei popoli”), premiare l’impegno e la competenza, perseguire nei limiti del possibile (messo a dura prova dal cronico sottofinanziamento del sistema universitario) l’eccellenza nella didattica e nella ricerca scientifica.

 

Ovviamente i nostri meccanismi di valutazione non sono privi di difetti, che rendono talvolta il sistema vulnerabile alle manipolazioni e comportano spesso un eccesso di burocrazia, soprattutto a carico dei docenti che si prendono l’onere di dirigere corsi di studio e organi collegiali. Ma il sistema attuale è senza dubbio un passo avanti rispetto al precedente, che non stabiliva requisiti minimi per l’accesso ai concorsi e assegnava i fondi di ricerca senza valutare il merito dei destinatari e l’efficienza nel loro uso.

 

Sostenere che la valutazione sia un cedimento alle logiche di mercato utile a rafforzare “piccoli feudi personali” è molto ingannevole, e funzionale agli interessi di chi vuole tornare, se non alle baronie, ai bei vecchi tempi in cui il lavoro, le decisioni di assunzione e promozione degli studiosi, l’uso dei fondi pubblici da parte dei professori universitari non potevano essere giudicati (né, quindi, sanzionati o premiati) da nessuno. Un’epoca in cui i finanziamenti erano distribuiti a pioggia, senza tenere conto della capacità dei docenti di spenderli bene. Un “liberi tutti” per intenderci, in cui i benintenzionati continuerebbero a far bene il proprio lavoro e i furbetti potrebbero prosperare indisturbati.

 

Assumere che nell’università non vi siano furbetti, del resto, è una fallacia tipica degli avversari della valutazione, che implicitamente attribuiscono agli accademici una qualche forma di superiorità morale. Come se il docente universitario fosse naturalmente incline a far bene, o almeno del suo meglio, e fosse quindi giusto porlo al di sopra di ogni giudizio.

 

C’è inoltre una fallacia minore nel pezzo di Scurati, su cui tuttavia è bene che i non addetti ai lavori siano informati. L’autore ritiene di parlare a nome di tutti gli accademici italiani. Niente di più sbagliato. A sottoscrivere la denuncia della valutazione rilanciata dal suo articolo sono in buona parte i conservatori dell’accademia, che dalle varie forme di valutazione sono stati per lo più penalizzati.

 

Nell’università italiana i restauratori che contrastano il merito e la valutazione si contrappongono agli studiosi che credono che la capacità di produrre ricerca scientifica di alto livello debba essere l’unico criterio per il reclutamento e l’assegnazione dei finanziamenti.

 

Tali fazioni si confrontano continuamente e talvolta si scontrano. Sulla definizione delle norme per l’assunzione degli accademici e il finanziamento della ricerca, sul disegno di riforme per migliorare l’efficienza e l’equità nell’uso delle risorse, sulla formazione delle commissioni che decidono del reclutamento e dell’assegnazione dei fondi, sulla definizione e il rispetto di criteri di valutazione della ricerca. E infine sui concorsi locali, lo strumento principe che coloro che Scurati chiama giustamente “baroni a viso aperto” tentano di usare per riprodurre la specie. Ma non sempre vi riescono. Anzi, vi riescono assai meno spesso, proprio grazie alla valutazione della ricerca. Per questo vorrebbero cancellarla.

 


 

Fabio Sabatini, Sapienza Università di Roma

Di più su questi argomenti: