Un'immagine di “Cobra verde”, film del 1987 di Werner Herzog ispirato al romanzo “Il viceré di Ouidah” di Bruce Chatwin

Il nano quacchero e gli schiavi

Maurizio Crippa

La storia di un “piantagrane” rissoso e ultra radicale che impose ai suoi Amici l’abolizionismo. La guerra di Benjamin Lay e i suoi interessanti riflessi sui fondamentalismi etici dei nostri giorni

Partiamo dalla fine, per comodità ermeneutica: “In definitiva, Benjamin Lay è stato un ultra radicale ambientalista e vegetariano con una chiara coscienza in materia di classe, genere e razza. Prima di leggere questo libro, forse la maggior parte dei lettori riteneva che una tale combinazione di convinzioni sarebbe stata possibile solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento, oltre duecento anni dopo la fine della straordinaria vicenda esistenziale di Benjamin Lay”. Invece no. Si poteva essere un “ultra radicale ambientalista e vegetariano con una chiara coscienza in materia di classe, genere e razza” anche due secoli prima, sebbene la cosa fosse decisamente più difficile e persino dolorosa, e a patto di pagarla di persona: cosa che oggi accade a molte meno persone (limitando, of course, il giudizio al nostro occidente liberale). Bisognava però, anche allora, avere una forte motivazione, anzi un credo fondamentalista. E in quell’epoca una motivazione così non poteva che essere religiosa. Oggi che s’è tutto ribaltato, succede che i militanti radicali che professano in modo intransigente le loro idee finiscano partano da basi laicissime e finiscano per considerarle poi come una sorta di credo religioso. O almeno i loro critici di questo li accusano. (Ma su questo, nel caso, ci torniamo dopo).

 

Prima è più interessante scoprire la storia di Benjamin Lay, questo “piantagrane”, questo “nano quacchero del Diciottesimo secolo”, come ha titolato il New York Times. Nato nel 1682 in un paesucolo agricolo dell’Essex – una delle contee inglesi che più si erano distinte, nel secolo della Rivoluzione di Cromwell, per sommosse sociali guidate da leader religiosi riformati e radicaleggianti – in una famiglia di quaccheri che si avviava ad uscire dalla povertà. Ben nacque gracile e deforme, in sospetto di vita breve (campò invece 77 anni) il che non gli impedì di lavorare da contadino e pastore fin da bambino, e soprattutto, mente sveglia e incline alla riflessione, di assorbire ed elaborare in modo alquanto personale i valori di una religione intransigente, contrassegnata dal ruolo assegnato all’ispirazione divina individuale, dal principio dell’amore universale (Filadelfia, la Città dell’amore fraterno, è la più grande realizzazione terrena del quaccherismo) e da un sospetto robusto verso l’autorità costituita. Religiosa e politica.

 

“Un ultra radicale ambientalista e vegetariano con una chiara coscienza in materia di classe, genere e razza”. Ma del ’700

Alla fine del Seicento, il quaccherismo radicale, la Società degli Amici che era stata uno dei protagonisti ideologici in senso egualitarista della rivoluzione di Cromwell, aveva ampiamente rinculato. O per meglio dire: gli esponenti più sanguinari della guerra civile erano finiti in carcere, torturati e giustiziati. I leader della setta avevano alla fine accettato una sostanziale costituzione che abiurava le tesi più estreme, riconosceva l’autorità costituita e sposava il più completo pacifismo non violento – quello per i quali i quaccheri sono noti nel nostro immaginario quantomeno hollywoodiano, quello di “La legge del Signore” di William Wyler. Eppure, nelle contrade inglesi più povere, come appunto l’Essex, l’antico imprinting comunitarista della Società degli Amici persisteva, sposato al rigore mistico e osteggiato dai vertici della congregazione, che non voleva grane e piantagrane. 

 

A questo filone Ben, bastiancontrario insopportabile fin da piccolo, si ispirò. E con spirito anarchico d’avventura se ne andò a Londra, e dopo aver fatto l’artigiano guantaio per un po’, fino a farsi venire il disgusto per l’odore della pelle animale, primo sintomo del vegetarianesimo integrale che lo porterà a rifiutare anche i vestiti di lana, solo lino e cotone da lui stesso coltivati e tessuti, si imbarcò come marinaio semplice. Per soddisfare “l'inclinazione sovrana della sua mente” di vedere il mondo (“Avendo poco o punto denaro in tasca e niente che particolarmente m’interessasse a terra, pensai di mettermi a navigare per un po’, e di vedere così la parte acquea del mondo”, è del resto la motivazione che Ismaele fornisce per il suo imbarco sulla baleniera del capitano quacchero Achab). Autodidatta, divoratore di libri, affascinato dalle distanze immense, di quella vita avventurosa e pericolosa farà tesoro soprattutto per coltivare i rapporti umani più diversi, multiculturali, multirazziali, multireligiosi e per raccogliere di prima mano le testimonianze di chi aveva partecipato alla tratta degli schiavi attraverso l’Atlantico. Nella sua seconda vita da attivista abolizionista politico-religioso, si definirà sempre un “umile marinaio”. E un commoner. Ma esperto delle cose che ha visto con i suoi occhi e giudicato.

 

Marinaio, autodidatta, giramondo. Scoprì l’orrore dello schiavismo a Barbados e portò la sua lotta religiosa a Filadelfia

Tornato a terra, sposatosi con una quacchera intransigente quanto lui dopo peripezie prematrimoniali che nulla hanno da invidiare a quelle manzoniane (ma qui il don Rodrigo sono le autorità della sua stessa setta, che lo avevano già più volte allontanato per rissosità e insubordinazione e ne osteggiavano le nozze) Lay finisce con la moglie a Barbados. E qui cambia la sua vita, e inizierà a cambiare la storia dell’abolizionismo.

 

Ci rimarranno due anni, dal 1718 al 1720. Nel periodo più selvaggio della tratta degli schiavi, anzi “nel cuore stesso della società schiavistica mondiale”. Un militare che ci aveva vissuto negli stessi anni, e non era certo un abolizionista, descrisse Barbados come “una Babele di uomini di ogni nazione e condizione” ognuno dei quali cercava di offrire il peggio di sé e dei suoi vizi nazionali. Tutti quanti dediti, oltre alla “depravazione” che scandalizzava i Lay, a far soldi sulla pelle degli schiavi. La popolazione contava novemila europei e settantamila africani. L’inferno in terra, per condizioni e concentrazione di schiavi, come successivamente non accadde più nelle Indie Occidentali. “E’ un detto comune che il lavoro di un negro ripaga le trenta sterline spese per comprarlo nel giro di un anno, sempre che riesca a sopravvivere tanto a lungo”, racconta il nostro militare. Ma ne sopravvivevano pochi, le condizioni erano ben peggiori di quelle che si svilupperanno poi, nelle Colonie inglesi del nord America. Fu lì che la vita di Ben cambiò, e trovò la battaglia ideale in cui concretizzare tutte le sue altre idee politiche e religiose. Cominciò a dire, su una base rigorosamente religiosa, che guardando “gli africani negli occhi aveva visto la luce del loro genio” e che gli schiavi “meritavano la libertà che è la vita stessa”.

 

Un visionario profetico, per i tempi e per i suoi fratelli, che infatti sempre meno, al ritorno in Inghilterra e poi in America, lo sopportavano. Ma Lay fu soprattutto un autodidatta, con tutta la foga che hanno gli pensatore, un filosofo e biblista improvvisato, abile nel suscitare e riutilizzare le polemiche per per corroborare i suoi valori. E fu ancor più un “antinomiano”. Potremmo tradurre con anarchico: rifiutava, come tutti i quaccheri della prima ora e altre denominazioni riformate all’inizio della Riforma, qualsiasi ruolo alla legge (nomos) tanto ecclesiale quanto, nei dovuti casi, anche civile. I quaccheri della sua generazione avevano sconfessato questo radicalismo, lui faceva parte di una rete comunitaria che a quel radicalismo orizzontale voleva invece tornare. Ed è questo, in modo peculiare, che lo avvicina molto ai tempi moderni. L’anarchia non va forse per la maggiore, ma una sorta di “antinomismo” è oggi comune a molti attivisti “anti”. Ed è tornato in auge nella struttura orizzontale della Rete. Da bravo antinomista, era convinto che il rapporto diretto con Dio ponesse il vero credente al di sopra delle leggi umane ed ecclesiastiche. Per questo, nei suoi giudizi di sola fede e ragione basati alla lettera sulle Scritture, diverrà un violento denunciatore, fino all’insulto e alle minacce fisiche (si presentava nelle assemblee armato di bastone, fermava e insolentiva i fratelli in messo alla strada), “degli eretici” “dei traditori”. Cioè dei quaccheri che contro la legge di Dio praticavano lo schiavismo. A Filadelfia, nella Città dell’amore fraterno fondata dall’amoroso fratello William Penn.

 

Religioso ma non mansueto, fu cacciato dalla sua comunità e considerato un “anormale”. Le sue idee vinsero decenni dopo

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Non sappiamo come la vide, quando nella tarda primavera del 1732 la nave offrì Filadelfia vicino. Ben conosceva il mondo, sapeva che la città fondata dai quaccheri era diventata una delle più prospere. C’erano magazzini e fabbriche al porto, negozi e palazzi che della primitiva frugalità degli Amici non avevano più il ricordo. Attorno, fattorie estese e rigogliose. E a muovere il motore di questa ricchezza ordinata e in costante crescita c’erano loro, gli schiavi. Non trattati magari nel modo belluino che aveva conosciuto, ma schiavi. E in cima alla piramide poche persone, in un’oligarchia di stampo teocratico in cui controllo della comunità e controllo dell’economia erano la stessa cosa. Ma dopo aver visto Barbados, dopo aver ingaggiato molte battaglie per il ritorno a una religiosità sobria e comunitarista, la causa dell’abolizione dell’abominio schiavista era diventata in lui tutt’uno con quella della restaurazione della vera fede della Società degli Amici. Così inizia la battaglia, ma è meglio dire la predicazione, di Benijamin Lay per ottenere l’abolizione “completa e subito” della schiavismo, “la pratica ignobile”. Durerà oltre trent’anni, fino alla morte nel 1759. Sempre più isolato, alla fine estromesso dalla comunità. Sempre più radicale nelle scelte di vita. In una sorta di grotta, con i suoi libri e il suo telaio, vegetariano, spostandosi di continuo a predicare e per mettere in scena, da vero agit-prop, le sue rimostranze. Ma rigorosamente a piedi, per non offendere gli animali.

 

La summa del suo pensiero è in uno strano libro, così apocalittico e scritturale da non aver trovato, anche nei decenni successivi, un pubblico disposto a leggerlo. E anche la storiografia dello schiavismo e dell’abolizionismo ha durato decenni prima di riscoprirlo e comprenderne la portata. Fu pubblicato nel 1737, e il titolo dice tutto: “All Slave-keepers That keep the innocent in bondage Apostates”.

Non è necessario notare che Marcus Rediker, storico della Pittsburgh University e autore di “Il piantagrane: storia di Benjamin Lay” (Elèuthera, 264 pp., 18 euro), specialista in storia atlantica (ha scritto libri sulla pirateria e la tratta degli schiavi) nonché attivista e conferenziere in mezzo mondo per le cause pacifiste e umanitarie, scrive in trasparente adesione spirituale al suo personaggio. Benjamin Lay è un suo idolo, un fascino a tutto tondo. Che fosse un oltranzista, violento, un anarchico pronto a scardinare la sua stessa chiesa per sostenere le sue visioni non intacca di un millimetro il giudizio di Rediker: ma basta saperlo, il racconto è documentato e la bibliografia puntuale. E’ più interessante notare che Rediker ne fa un modello, un prototipo di uno stile dell’attivismo politico che ha molto a che fare con certi fenomeni di oggi. Basta sostituire allo schiavismo la causa ambientalista, o certe declinazioni delle cause multiculturali o per la parità di genere, e pensare allo stile profetico e apocalittico di alcuni protagonisti, soprattutto giovani, e il senso del parallelismo appare chiaro. E rende assai attuale la storia del “piantagrane”.

 

Nel libro “Il piantagrane: storia di Benjamin Lay” (Elèuthera) Marcus Rediker ne fa un prototipo dei contestatori radicali di oggi

L’avventura umana di questo nano quacchero intransigente terminò come doveva finire. Le contese si faranno sempre più spigolose, la fama di “piantagrane” instancabilmente crescerà, trasformandosi anzi nel giudizio negativo su un persona molesta, anzi mentalmente instabile. Psicologia, deformità fisica, comportamenti antisociali si uniranno in una condanna di tipo quasi lombrosiano. Un provocatore emarginato dalla sua stessa chiesa in base a una sorta di hate speech messo in opera dai suoi avversari-fratelli. L’altra cosa notevole è che la sua battaglia abolizionista, la sua semina decisiva che ora gli viene riconosciuta da tutti gli storici dell’abolizionismo e del congregazionismo americano, dovrà attendere alcuni decenni prima di dare frutto. E a poco a poco diventerà maggioritaria entro la sua comunità, verso la fine del secolo, e di lì si espanderà alle Colonie. Ma avverrà attraverso un abolizionismo più moderato, è più graduale, a poco a poco basato su idee illuministe anziché bibliche. E, soprattutto, saranno le mutate condizioni economiche, e non il profetismo apocalittico del piantagrane Ben, a determinare un passaggio d’epoca che porterà alla Guerra di Secessione: che per Abramo Lincoln aveva una forte connotazione religiosa abolizionista, ma non fu certo questo, come noto, a determinare l’esito della Guerra civile. Così come, si può ipotizzare, non saranno le battaglie ecologiste in piazza e sui social a determinare, in futuro, la conversione dell’economia mondiale all’ambientalismo. Saranno le leggi del mercato. Ma va riconosciuto che, in tutte le epoche, i “piantagrane” visionari hanno la loro parte di merito.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"