Datemi un dito e farò arte. Vita e opere di Gianni Miraglia

È stato il Forzuto della trasmissione di Edoardo Camurri “Provincia Capitale”, ha recitato nudo i suoi “Monologhi della fatica”. Oggi realizza ditodisegni. E ci spiega perché

Maurizio Baruffaldi

Era stato licenziato dalla sua agenzia pubblicitaria dopo vent'anni, e postava su Facebook una pioggia di scritti visionari e appassionati. Lo andai a sentire dal vivo all'ex Cicco Simonetta, oggi il Germi di Manuel Agnelli e soci: nudo, con una calza sull'uccello, Gianni Miraglia improvvisava i suoi Monologhi della fatica seguendo gli argomenti suggeriti nei bigliettini lasciati in una cesta dal pubblico; intanto sollevava fusti di birra da 20 litri. Lessi poi l'ultimo dei suoi quattro romanzi: Ritornello al futuro, per Baldini & Castoldi, dove lo zombie di Luigi Tenco torna a Sanremo, e non per salvarlo. Poi Miraglia viene arruolato da Edoardo Camurri, che lo vuole nei panni del Forzuto nella trasmissione culto Provincia Capitale, su Rai 3. Ma la dipendenza social non passa. “Non ce la facevo più a scrivere quello che pensavo; ma non potevo comunque esimermi dall'esserci: l'opinione si impossessa di noi. Ed è peggio di noi”. Parecchio lavoro, per l'esorcista del terzo millennio. Gianni inizia così a disegnare direttamente sullo smartphone con il dito, e posta questi ditodisegni. Opere totalmente Pop, che deformano, spesso sviscerandola, l'attualità.

 

L'appuntamento è dal “kebabbaro” di Corso XXII Marzo. Temevo lo squallore di questi angoli dalle luci estreme, da pronti via, e invece siamo seduti a tavolini da rivista d'arredamento, sotto luci pensate, dove puoi mangiare e bere ben oltre il kebab. Curdo milanese. Gianni Miraglia è vestito come se fosse uno dei suoi ditodisegni: non manca un colore.

“Ho iniziato per istinto a lasciare delle tracce sulle foto, perseguitato anche dai miei vecchi post, che adesso quando li trovo cancello; perché non fanno ridere, o c'è tanta saccenza. Pensa che insegnamento che ci danno i giovani: stanno su Instagram, e vanno avanti a storie che girano solo 24 ore: emettono la loro onda e sanno che sparirà. Ci vuole coraggio”.

 

Non avevi mai usato un pennello in vita tua. “Sono mancino, e a scuola mi avevano costretto a usare la destra: ora che sono finalmente me stesso ho smaltato un occhio sull'unghia dell'indice, il terzo occhio. Per rendere omaggio a questa possibilità. Oggi in autobus ho fatto un teschio in due minuti, e ho pensato: guarda come ti evolvi, con la ripetizione. Ormai la linea la traccio con una certa chiarezza, e lavoro con disinvoltura sul blocco di colore”. La tua è l'evoluzione del touch. “Sì. E quando scopri l'esistenza delle ombre, arrivi al ritratto. Grazie poi allo spazio minuscolo mi difendo dall'eccesso, dalla vanità. Io non ho figli, e sto cercando in me una forma infantile. È il modo più leggero che ho, per stare nell'attualità”. Gianni ordina una Pepsi Light e chiede con gentilezza di abbassare appena il volume della musica. Sto registrando, e lui parla con una voce bassa, soffiata. Io cerco di far spazio sul tavolino, e sposto su quello vicino la piantina che c'è sul nostro. Ma Gianni mi fa retrocedere: potrebbero offendersi.

 

I ditodisegni sono stampati su una carta fotografica museale, in varie dimensioni; se il compratore vuole la cornice, Gianni consiglia lo Studio Bolzani a Milano, che definisce tra più grandi corniciai d'Europa.

“Se la foto su cui lavoro non è tanto definita ci gioco, dove è sgranata faccio ombre; perché certe magari le prendo da Google e sono vecchie. Per esempio Totò, o Bobby Solo, sono per forza vecchie. All'inizio mettevo tante parole, ed ero più introspettivo, adesso a volte non scrivo nemmeno più. Metto solo il disegno e vedo cosa succede”. Mi mostra l'ultimo, con quella effe di Facebook che fa da martello. Un logo che lo ossessiona e stimola. A me ricorda vagamente La linea di Osvaldo Cavandoli, una tratto vivo che si trasforma. Ho apprezzato quello dove la effe simboleggia un inginocchiato, con una coda tipo mantello sacerdotale, o da sposa. Glielo dico, ma Gianni non se lo ricorda. Mi fa vedere invece quella seduta sul cesso, che caga sulla fogna di Facebook. Ma è la stessa che dico io. Evocare è un traguardo. Diversi immaginari. Forse speculari.

 

Il compratore più importante. “Un gallerista giapponese al WopArt, fiera internazionale di opere d’arte su carta, a Lugano. Esponevo le mie e giravo come una trottola per trovare contatti. Trovo questo giapponese, che finisce per commissionarmi un lavoro, intervenire su una foto della sua ragazza, nuda. Cosa privatissima. Poi mi sono fatto tutto un film di una mia mostra in Giappone... ma non ci siamo ancora. Illudersi è un attimo, come a Hollywood. Però è lui che mi ha fatto arrivare a questa carta fotografica da museo”.

 

Andiamo un po' random sui disegni e l'attualità.

“Adesso c'è il film di Amelio su Craxi, e tutti si buttano su Craxi. Io ho fatto Amalia su Craxi. E Craxi driver, e altri. Mi sono sbizzarrito. Senza mai evocare la questione politica, ma giocando con i nomi, l'immaginario immediato. Non discuto il film, dico solo che poi ti ritrovi dei millenials che rimpiangono Craxi senza mai nemmeno averlo visto. È lo stesso meccanismo per cui un ventenne ama Mussolini. Allora mettiti le braghe del ventennio, beviti il surrogato di caffè, comprati la Topolino, e non rompere il cazzo con Internet, che ce l'hai grazie agli Americani. L'italiano rimpiange passati che non ha mai vissuto, e Craxi entra in questo fastidio”. Sotto la voce politica rientrano anche Luigi Di Maio classe 5S. Disegnato come scolaretto presuntuoso e stizzito. “Quello che sa tutte le capitali, ma non va mai a giocare in cortile con gli altri”.  Game of drones, con il parruccone paglierino di Trump. - Il gioco del potere, e la guerra dei droni, tra colossi delle armi. -

 

Il sushi di cittadinanza vede una Maria Antonietta che lancia sushi, dove erano le brioche. “Questo me lo ha comprato un giornalista di Sky”. Moon Natale è un presepe lunare, con i cinque partecipanti in tute spaziali da astronauta. “Quest'ultimo, insieme a King for one day, uno scimmione aggrappato a un dirigibile, e alle varie versioni di Like on Mars, nascono dalla mia attrazione per lo spazio, e la conquista della luna. Sono stato alla Nasa, a fare un servizio per Omega, e ci ho parlato con gli astronauti che ci sono andati: quelli erano dei cowboy!”

 

Poi ci sono quelli ispirati ai maestri, onorati e dissacrati, come Mandrian, con le mucche colorate a blocchi, ispirata al pittore Mondrian. E quelli più dolorosi, verso lo schifo nazista. I have a dream, con Cassius Clay che stende un lenzuolato del KKK. Il senza titolo con le colombe bianche marcate da una svastica, che io vedo precipitare, invece mi spiega Gianni che sono in picchiata come Stukas. Per arrivare al più controverso, dove c'è Anne Frank, armata di mitra, che fa il dito medio. “Pensavo a Bastardi senza gloria di Tarantino. C'era il casino intorno alla Segre, la libreria bruciata, c'era stato l'orrore dei volantini con la sua faccia tra ultras romani, e insomma questo nazismo pecoreccio ovunque...” Della serie: non se ne può più, crepate. O perlomeno: andate a fanculo. Quanti siamo, e quante volte l'abbiamo pensato. “La foto è quella che conosciamo, e ho dovuto entrarci dentro, per fare le ombre, e mentre lo facevo sentivo questa ragazzina, l'ho sentita proprio tanto... Ma aveva paura a farlo e ogni volta lo mollavo lì. Poi ho chiesto consiglio a un mio amico ebreo e lui mi ha invitato a spiegarla. E l'ho fatto. E meno male”.

 

Trascrivo dal messaggio che mi ha girato. “Ho assimilato il sorriso congelato dal destino atroce che ha reso celebre Anne, e quel sorriso ha preso vita, e sfida idiozia e sopruso. Sull’etichetta della sua mimetica c’è scritto HELLO MY NAME IS F*CK YOU. Ecco, la cultura pop. L’antisemitismo, oggi, inizia dal pop. Passa da capi d’abbigliamento e marchi che utilizzano le rune, passa dai muscoli e dai tatuaggi. Tutto viene semplificato, banalizzato, e allora il linguaggio del pop diventa anche lo strumento adeguato per andare contro quei messaggi”.

 

“Ma la vera merda è su Twitter. È lì che scoppiano i casini. Perché arrivano dritti ai veri vip. Vedi la feccia che attacca con i nickname nibelungici. Non ti dico le cose che a arrivano a me, figurati i famosi. Facebook sa essere cattivo, ma è più livellato, più modale. E poi ci si conosce, un po', in qualche modo si creano relazioni”.

 

Riprendiamo il percorso che porta al dito. La scrittura non poteva più bastare.

“Ho capito che ho bisogno di freschezza, di rapidità. E con i libri a un certo punto alzavo lo sguardo e dicevo: 'Che noia, questi tempi lunghi, questi nostri interni...' E siccome cercavo una nuova verginità, sono finito a fare i Monologhi della fatica. Nudo, per non difendermi, il cazzo nascosto per pudore. Non avere un copione era una sorta di terapia in pubblico. Qualunque tema suggerito dal pubblico era anche mio, siamo tutti minuscoli e universali. E la fatica del sollevare fusti mi serviva scenicamente, oltre cha a spossarmi. Per sentirmi ancora più indifeso”.

 

E arriva la tv, con Provincia Capitale. Una trasmissione che ha ricevuto solo belle parole.

“Pure l'encomio di Aldo Grasso! Grazie a Edoardo Camurri. Lui è un vero intellettuale, uno che è curioso delle vite altrui, non spara il suo sapere. Ama la leggerezza, il pop, e non cerca le lacrime. Mi conosceva attraverso Simone Caltabellota, mio amico e editor, oltre che cofondatore della nostra casa editrice Atlantide, e dopo essere venuto a vedere i miei monologhi mi propose questo siparietto, a torso nudo, in catene. Ispirato al Zampanò di Fellini: il forzuto c'è sempre negli spettacoli di strada, e noi siamo itineranti”. Nella ultime due trasmissioni però hai messo anche vestito e papillon, sempre sotto le catene. “Un personaggio più di pensiero: leggo una lettera alla città, scritta da me. Ma sempre surreale, con enfasi declamatoria”.

 

Arrivano al tavolo polpettine e insalata. Gianni mangia con calma, alternando boccone e parole. La musica mi sembra sia tornata al suo volume normale. Aumenta anche il metallico groove delle pentole, due bambini si rincorrono tra i tavoli. Allora appoggio il telefono sul lungo bicchiere e lo avvicino al mento di Gianni. Che italiani hai visto, in questi anni di tv itinerante? “Premesso che la mia è una visione milanocentrica, mi pare che il resto d'Italia c'entri poco con questa città. Gli manca quell'humus, quella sensazione di incrociare persone che inseguono qualcosa. Milano mi fa sentire al presente”.

Partiamo dal binario nord e sud. “Intanto a nord mi perdo meno, sono tutte città concentriche, con la chiesa in mezzo; nel sud fatico di più a orientarmi. A sud le telecamere destano curiosità, eccitazione. Al mercato del pesce di Catania, alle cinque di mattina, a torso nudo e catene, in mezzo ai pescatori, uno di loro mi passa un polipo, e con quel mollusco intelligente inizio a percuotermi; per essere accettato da loro. E non capivo se fosse ancora vivo... Quando arrivano le telecamere, al nord si nascondono”.

Un elenco random del vivere in provincia. “Hai la sensazione che si guardi ancora la tv, generalista. Che esistano gli anziani, che escono di casa, che si siedono al bar, dove ci sono tutte le generazioni”.

 

Sarà l'età, ma a Milano ho quella che ogni luogo abbia un target. “Hai la sensazione che ci sia il giornale locale, la squadra locale, della quale non hai mai visto le maglie. Che esistano le mura, e queste mura sono illuminate e importanti, e c'è una vita dentro, e una fuori. Poi ci sono i giovani vestiti in modo retrò, spesso un certo casual tecnico, North Face, Napapijri; Milano segue più il trend, l'esperimento. Ma soprattutto esistono gli intellettuali, in Provincia. Ci sono queste persone lontane dal clamore, da tutto ciò che diamo per scontato. Personaggi onnivori, specialisti in cose che appaiono inutili. E ogni volta che rivedo una puntata imparo qualcosa. È come se la Provincia fosse custode della Memoria. - Chiudiamo con l'immediato futuro. Dove ti porta quest'anno la ricerca di verginità?” Devo tornare dal vivo. Con uno scritto che innesta musica e attualità. Si chiamerà il Dottor Divago. “Ed è quello che ho davanti. Capace di comprendere e approfondire. Ma bisognoso di perdersi”.

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