Giampaolo Pansa (foto LaPresse)

Addio a Giampaolo Pansa, che fuggiva da ogni semplificazione

Sergio Soave

Il ricordo dell’insurrezione dei “boia chi molla” a Reggio Calabria

La notizia della scomparsa di Giampaolo Pansa, ricordato con affetto e stima da (quasi) tutti, spinge a riflettere sulla figura di un giornalista da sempre interessato, prima di tutto, a capire, rifiutando di dare retta a quelli che pensano di avere già capito tutto. I suoi recenti detrattori che lo accusano di “infangare” la Resistenza perché non ha accattato la leggenda e ha cercato, anche in questo caso, di rievocare i fatti, non scalfiscono, anzi esaltano la sua personalità di uomo libero dai pregiudizi, che comunque cercava sempre di liberarsi anche dei suoi.

 

  

Lo avevo conosciuto in circostanze particolari, durante l’insurrezione dei “boia chi molla” a Reggio Calabria, quasi mezzo secolo fa. Io ero lì insieme ad altri funzionari del Pci mandati ad aiutare la federazione locale, che doveva votare a favore di una risoluzione favorevole alla scelta di Catanzaro come sede della giunta regionale. Pansa, naturalmente, era lì per raccontare la rivolta ai lettori della Stampa. Ci incontravamo qualche volta sul lungomare, dove passeggiavamo prima dell’inizio dei tumulti, che di solito venivano inscenati attorno a mezzogiorno. Scherzavamo sul fatto che noi due, entrambi nati in provincia di Alessandria, sembravamo una replica striminzita dell’occupazione piemontese che un secolo prima aveva combattuto il brigantaggio anti risorgimentale. Questo riferimento autoironico era la base di chiacchierate sul carattere della rivolta reggina, che sui giornali del nord veniva semplicisticamente etichettata come fascista.

 

 

A vedere in faccia i funzionari pubblici che, dopo avere firmato la presenza uscivano per partecipare ai cortei, i ragazzi delle scuole che giocavano alla rivoluzione su barricate improvvisate, persino osservando la cerchia di poltrone su cui sedevano i membri del “comitato” per Reggio capoluogo, che si riunivano in un salone del nostro stesso albergo (uno dei pochi non requisiti per alloggiare le forze dell’ordine), avevamo maturato l’impressione che si trattasse piuttosto di un’agitazione qualunquista, che aveva colto l’occasione della controversia sul capoluogo per dare sfogo a un malessere antico e profondo. Che esponenti dell’estrema destra, che non aveva aderito alla scelta di Catanzaro fatta dal governo, utilizzassero l’occasione era ovvio, così come lo spostamento verso destra di settori moderati, coinvolti nella feroce lotta contro Giacomo Mancini, il ministro socialista che in quel momento guidava il Psi. Però, per Pansa, la vicenda andava letta senza semplificazioni politiciste, in un quadro sociale e storico piuttosto complesso. La sua lezione di allora, quando ero un ventenne assai propenso alle semplificazioni ideologiche, mi sembrava un po’ urticante sul momento, ma spero che mi sia servita nel mezzo secolo successivo. Anche per questo sento l’esigenza di esprimere non solo la stima ma la riconoscenza per un maestro di verità, sempre intrisa di quel mezzo sarcasmo che caratterizza molti piemontesi.

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